Il dolore reumatico nell’anziano

Introduzione
La definizione del dolore, nei termini di una “sgradevole esperienza sensoriale ed emozionale, associata a un danno tessutale, attuale o potenziale, ovvero descritta in termini di tale danno” sottolinea la partecipazione delle emozioni e dell’affettività all’esperienza dolorosa, suddivide in tre componenti l’esperienza del dolore: la sensoriale-discriminativa, quella affettivo-motivazionale e quella cognitivo-valutativa. È di tutta evidenza che il dolore è in grado di peggiorare la qualità di vita del paziente – e del soggetto anziano, in particolare – in un ambito che tocca la sfera più intimamente profonda, personale e familiare.

Note epidemiologiche
In una recente survey italiana (Coaccioli S, Varrassi G et al, submitted) – condotta sull’intera popolazione di una cittadina umbra – è stata confermata una prevalenza del dolore cronico pari a circa il 26%, con un maggiore interessamento del genere femminile. Lo studio, fra le molteplici altre valutazioni, ha confermato che le malattie reumatiche (MR) croniche compongono il gruppo di affezioni con maggiore prevalenza di dolore cronico, attestandosi ad oltre il 50% di tutto il campione studiato.

Ricordi di fisiopatologia
A livello fisiopatologico il dolore diventa cronico anche in assenza della causa che ne ha generato l’esordio per la coesistenza di tre meccanismi: l’alterazione del riconoscimento di un segnale, per la genesi di nuovi recettori indotta dal fattore di crescita nervosa (NGF); l’alterazione della trasmissione del segnale, per azione della sostanza-P che incrementa sia l’eccitabilità neuronale sia i campi recettoriali; l’alterazione, infine, dei meccanismi centrali di processing del segnale, per attivazione dei recettori NMDA; a questi fattori si aggiungono gli elementi che costituiscono il sistema della glia: gli astrociti e la microglia, come si vedrà più avanti. Affatto diverso, ma non per questo meno importante, è l’aspetto relativo alla sofferenza, della quale il dolore cronico è responsabile. Se prima si è fatto riferimento alla componente sensoriale e discriminativa in questo ambito si tratta della componente affettiva e motivazionale e della componente cognitiva e valutativa.

Fisiopatologia del dolore nel paziente anziano
È interessante capire se l’invecchiamento sia in grado di alterare la sensibilità per il dolore, sia esso acuto o cronico: in altre parole una presbialgia in termini di capacità di avvertire l’acuzie dolorosa (in senso quali- e quantitativo), di discriminare ed essere in grado di valutare il dolore cronico, di sviluppare depressione del tono dell’umore, di presentare variazioni della percezione del dolore in relazione a deficit cognitivi in essere.

Ruolo della glia
Negli ultimi anni si è fatta strada l’ipotesi che i neuroni non siano le uniche cellule che rispondono a lesioni dolorose con il conseguente rilascio di sostanze promotrici della sensibilità neurale. Nel midollo spinale, così come nel cervello, la glia supera di gran lunga in neuroni per numero. Le sue cellule non inviano impulsi nervosi, ma presentano alcune importanti proprietà che vanno ad influenzare la scarica neuronale: la glia ha il compito, fra molti altri, di conservare l’ambiente chimico nel quale sono immersi i neuroni, invia l’energia che alimenta le cellule nervose, assorbe i neurotrasmettitori rilasciati dai neuroni, distribuisce i neurotrasmettitori stessi per accrescere o modulare la trasmissione di segnali neurali, rilascia fattori di crescita una volta che i neuroni siano lesi, rilascia sostanze che richiamano cellule immunocompetenti. Tutte queste complesse azioni possono prolungare, in sintesi, lo stato di sensibilizzazione neuronale. Deve essere ricordato che la glia si compone sostanzialmente di due elementi cellulari: la microglia e gli astrociti – questi ultimi non sarebbero coinvolti nell’avvio del dolore conseguente alla lesione del nervo.
Le ultime evidenze sperimentali fanno ritenere che la glia interpreti la scarica neurale rapida e i cambiamenti neurali che “traduce” come segno di sofferenza neurale; in risposta a ciò, la glia rilascia molecole sensibilizzanti per ridurre lo stress sui neuroni. Le citochine prodotte dalla glia in condizioni flogistiche, ad esempio, amplificano la sensibilità delle fibre sul dolore stesso; nel momento in cui si innesca un circuito autoriverberante, in caso di dolore cronico, si genera un meccanismo a feedback, il quale, non solo mantiene la percezione del dolore, ma anche, e soprattutto, induce modificazioni “tossiche” a livello corticale – con conseguente induzione, per un ulteriore esempio, di depressione.
Un ulteriore momento di riflessione importante, circa il ruolo della glia nell’ambito del dolore sorge dall’altrettanto recente scoperta circa l’intreccio tra riduzione del dolore, glia e risposta agli analgesici, nasce dalla prova che la glia è ritenuta responsabile dello sviluppo di tolleranza all’eroina ed alla morfina. In altre parole, la glia contrasta l’effetto di lenimento del dolore prodotto dalla morfina. Le azioni della glia per ridurre l’efficacia della morfina concordano con uno dei compiti fondamentali della glia: conservare un’attività bilanciata nei circuiti neurali. Sono dunque allo studio strumenti volti alla modulazione dell’attività gliele, non solo per ridurre il dolore ma anche per impedire il rischio di dipendenza da narcotici.
È senz’altro confermato come le condizioni dolorose croniche che colpiscono il soggetto anziano (si vedano più avanti i disordini più frequenti) siano in grado di modificare la qualità della vita e di accompagnare e di provocare depressione del tono dell’umore in maniera affatto maggiore rispetto a quanto avvenga nel soggetto di più giovane età. Anche in questi casi sia la percezione del dolore, sia la sua elaborazione, mostrano di essere influenzati in modo del tutto particolare dalle condizioni emotive, dallo stato cognitivo e dalle condizioni sociali ed ambientali, in un contesto ampio che contribuisce a collocare il paziente anziano nel più vasto ambito del paziente complesso.

Nosografia del dolore reumatologico nel paziente anziano
Nel paziente anziano sono frequenti soprattutto i disordini muscoloscheletrici, rappresentati dalle MR in senso lato. Le MR comprendono un eterogeneo gruppo di infermità, la maggior parte delle quali presenta un andamento ingravescente e cronico ad esito spesso invalidante – tanto da comportare un significativo peggioramento della qualità di vita per tutta la durata del loro decorso – caratterizzate dalla maggiore prevalenza nel mondo occidentale – con un indice di morbosità, sul totale delle patologie, pari a circa il 20%. Le MR si possono suddividere in quelle degenerative, sostanzialmente rappresentate dalla sindrome osteoartrosica, e in quelle infiammatorie, rappresentate dalle artriti sistemiche – tutte caratterizzate dalla presenza di dolore cronico, rispettivamente di tipo meccanico e infiammatorio. Nell’ambito delle MR globalmente intese, quelle a patogenesi degenerativa cronica rappresentano oltre il 70%, mentre quelle infiammatorie croniche sono pari a circa il 10%. In modo affatto schematico possiamo suddividere le MR con dolore cronico in cinque gruppi: degenerative, l’osteoartrosi; infiammatorie, le artriti; funzionali, il low back pain e, per motivi affatto diversi, la fibromialgia; strutturali, l’osteoporosi conclamata con fratture vertebrali. La MR degenerativa che più frequentemente manifesta dolore cronico è rappresentata dall’osteoartrosi (OA) specialmente nella localizzazione alle grandi articolazioni degli arti inferiori – coxofemorali e delle ginocchia – così come al rachide in toto, mentre le MR con patogenesi infiammatoria cronica sono rappresentate dalle artriti, quali l’artrite reumatoide e le spondiloartriti sieronegative. Anche le connettiviti sistemiche sono in grado di presentare dolore cronico, anche se sempre più frequentemente sono all’attenzione del medico i pazienti con dolore neuropatico importante. Una patologia di grande rilevanza epidemiologica è costituita dal low back pain, che spesso viene misconosciuto sul piano clinico e trascurato su quello terapeutico, anche e soprattutto se associato a dolore neuropatico. Un capitolo a parte, infine, è costituito dall’osteoporosi conclamata che, diventando malattia nel momento dell’evento fratturativo a livello dei corpi vertebrali, implica la comparsa di dolore cronico – si prescinde qui dai traumi femorali e al polso – ad esordio subdolo ma con andamento ingravescente con il sopraggiungere di nuove fratture incidenti, su quelle prevalenti.

Dolore neuropatico
La diagnosi è basata su due elementi: il primo è il riconoscimento dei sintomi tipici di una componente neuropatica nel solo racconto del paziente e in alcuni casi con approfondimento mediante anamnesi guidata. Il secondo consiste nella fase attiva dell’esame clinico in cui il medico, mediante l’analisi della qualità descritta dei diversi sintomi sensitivi e l’esame obiettivo delle sensibilità, cerca di identificare delle caratteristiche sintomatiche e di localizzare una sede anatomica per poter confermare con maggior certezza che esiste una lesione nervosa e che essa è responsabile dei sintomi. In alcuni casi la diagnosi è evidente, come ad esempio nella sindrome del tunnel carpale. In questo caso si ha un dolore causato da compressione/ischemia del nervo mediano: i sintomi hanno qualità neuropatica (formicolio, bruciore) nel territorio mediano. In questo esempio i sintomi del dolore neuropatico (NP) si possono accompagnare ad alterazioni obiettive (atrofia dei muscoli e riduzione della sensibilità) e strumentali (esami neurofisiologici alterati). Un altro esempio è rappresentato dalla radicolopatia lombosacrale cronica (una sensazione di dolore crampiforme al polpaccio). Con il passare del tempo, il dolore al polpaccio si estende a tutto il territorio del nervo sciatico o della radice S1, in pratica dalla regione glutea fino al piede. Un altro esempio paradigmatico di NP è costituito dalla Neuropatia post-Herpetica (PostHerpetic Neuralgia, PHN). La sintomatologia è caratterizzata da una ganglioneurite a decorso acuto con esantema vescicolare e dolore neuritico talvolta molto intenso. I prodromi sono simili a quelli dell’influenza comune: malessere, astenia, anoressia, febbre, faringite e pare¬stesia dei nervi cranici; spesso il paziente lamenta un dolore intercostale. In questa fase compaiono le prime vescicole. Le vescicole sono di 3-6 millimetri, riunite a grappolo, con una localizzazione dermatomerica, cioè si espandono e tendono a disegnare il metamero del nervo interessato. In questa patologia il dolore è presente nel 60-80% dei casi; si tratta di un dolore con le caratteristiche più disparate: prurito, dolore trafittivo, urente, lancinante, continuo e anche resistente agli analgesici di uso comune. È definito come un dolore che persiste in corrispondenza dei dermatomeri sui quali si era manifestato un Herpes Zoster, dopo la scomparsa dell’esantema.

Sindrome dolorosa regionale complessa
La sindrome dolorosa regionale complessa (Complex Regional Pain Syndrome, CRPS) rappresenta un capitolo a sé stante. È una patologia multisintomatica e plurisistemica, che interessa solitamente una o più estremità, ma può interessare virtualmente qualsiasi parte del corpo.

Dolore
II segno distintivo della CRPS è il dolore e i problemi di mobilità sproporzionati con quelli attesi dalla lesione iniziale. Il dolore è descritto come sordo, severo, costante, urente e/o profondo. Ogni stimolo tattile cutaneo (per esempio i vestiti indossati, una lieve brezza) può essere percepito come doloroso (allodinia). Uno stimolo tattile ripetuto (per esempio picchiettare la pelle) può causare un dolore che aumen¬ta con ogni colpo e quando lo stimolo ripetuto si arresta può verificarsi una sensa¬zione persistente e prolungata di dolore (iperpatia). Ci può essere una dolenza diffusa o localizzata in piccole aree nei muscoli della regione affetta dovuta a trigger point (sindrome dolorosa miofasciale). Ci possono essere spontanee, acute pugnalate di dolore nella regione affetta che non sembrano avere origine (disestesie parossistiche e dolori lancinanti).

Alterazioni cutanee
La cute può sembrare lucida (distrofia/atrofia), secca o squamosa. I peli possono inizialmente svilupparsi grossolani e quindi assottigliarsi. Le unghie nell’estremità affetta possono essere più fragili, si sviluppano più velocemente e poi più lentamente. Le unghie che crescono più veloci sono quasi la prova che il paziente ha una CRPS. La CRPS è associata a una varietà di disordini della pelle, comprese le eruzioni, le ulcere e le pustole. Anche se raramente, alcuni pazienti hanno richiesto l’amputazione di un’estremità per le infezioni cutanee ricorrenti. L’attività simpatica anomala (cambiamenti vasomotori) può essere associata con cute calda o fredda al tatto. Il paziente può percepire le sensazioni di calore o di freddo nell’arto affetto senza nemmeno toccarlo. La pelle può mostrare una sudorazione aumentata o sensazione di freddo. I cambiamenti nel colore della pelle possono variare da un’apparenza chiazzata bianca a un’apparenza rossa o blu. I cambiamenti nel colorito cutaneo (e il dolore) possono essere innescati dai cambiamenti nella temperatura ambientale, particolarmente in ambienti freddi.

Edema
L’edema duro o con permanenza della fovea è solitamente diffuso e localizzato alla regione dolorosa. Se l’edema è delimitato nettamente sulla superficie della pelle seguendo una linea, è quasi la prova che il paziente ha una CRPS. Tuttavia, alcuni pazienti possono mostrare un edema nettamente delimitato perché legano una fascia intorno all’estremità per comodità.

Disturbi motori
I pazienti con CRPS hanno difficoltà a muoversi perché il movimento è doloroso. In aggiunta, sembra esserci un effetto inibitorio diretto della CRPS sulla contrazione muscolare. I pazienti descrivono la difficoltà nell’inizio del movimento, come se avessero le articolazioni “rigide”.

Terapia
Dolore cronico di grado lieve
Il dolore cronico degenerativo rappresenta ancora oggi un campo terapeutico non adeguatamente fronteggiato. Nonostante il fatto che il dolore come problema clinico rappresenti oggi il principale motivo di richiesta di intervento medico, l’uso corrente dei farmaci anti-infiammatori non-steroidei (FANS) nell’osteoartrosi appare certamente sovradimensionato, dal momento che una dose adeguata di un analgesico minore, quale il paracetamolo (PCM), appare in grado di controllare il dolore nella maggior parte dei pazienti. Attorno a queste due affermazioni si costruisce oggi il moderno approccio al dolore cronico degenerativo. In presenza di dolore di grado lieve (≤3/10 su scala VAS) sono consigliate due categorie di molecole: il PCM e i FANS, con indicazione per il primo quando non è presente infiammazione articolare – ad esempio nell’osteoartrosi in fase di stato; per i secondi quando prevale un quadro flogistico – ad esempio nelle artriti. Questo approccio consente, se necessario e per il tempo richiesto, di poter associare – con meccanismo oltretutto sinergico – i due trattamenti: quando la MR degenerativa presenta segni infiammatori al PCM si può associare il FANS, viceversa in corso di MR infiammatoria, in presenza di dolore meccanico, al FANS si può associare il PCM con una maggiore efficacia analgesica. Non deve essere tralasciato, per inciso, che i FANS posseggono un’attività analgesica ad un dosaggio inferiore, generalmente, a quello richiesto per l’attività anti-infiammatoria – mentre al contrario, aumentando la posologia dei FANS non aumenta la potenza analgesica (ma solo quella anti-infiammatoria) ma aumenta il rischio di eventi avversi ed effetti collaterali.

Dolore cronico di grado moderato-severo
Nell’approccio terapeutico al dolore cronico degenerativo di grado moderato e severo (>3-4/10 e >6-7/10, rispettivamente) vanno prima di tutto smentiti i miti e i pregiudizi, nonché ridimensionati i timori, circa l’impiego degli oppiacei in reumatologia. I timori di una dipendenza psicologica, ancor prima che fisica, sono stati responsabili di un equivoco culturale molto diffuso che ha generato una normativa penalizzante la prescrizione e la dispensazione degli oppiacei. Devono peraltro essere smentiti i miti che gli oppiacei diano dipendenza e, addirittura, accorcino la vita nonché alterino le funzioni cognitive e provochino depressione respiratoria. Come affermato su Lancet (giugno 1999) la dipendenza non si rileva se non è presente dolore, così come l’impiego per scopi medici degli oppiacei non comporta dipendenza. Il fenomeno della dipendenza (in inglese: addiction, dal verbo latino addicere = rendere schiavo) si è dimostrato essere del tutto assente nel trattamento del dolore cronico, ma si fonda invece, sulla falsa credenza che l’impiego per scopi terapeutici possa risultare in grado di condizionare un uso voluttuario delle molecole oppiacee. Gli studi condotti a questo scopo, tanto quelli iniziali quanto quelli realizzati su una vastissima popolazione di pazienti (oltre 11mila) con il Boston Collaborative Drug Surveillance Programme, hanno documentato un rischio di addiction non superiore allo 0,03% (dato che risulta essere, fra l’altro, esattamente uguale al rischio comune di addiction nella popolazione generale). Tutto ciò è stato confermato anche, e soprattutto, dall’evidenza che le vie nervose del dolore sono diverse dalle vie nervose della gratificazione, così come i neurotrasmettitori che condizionano le prime (p. es.: la serotonina) sono diversi da quelli che operano (p. es.: la dopamina) nelle seconde. Sfatato quindi il pregiudizio per l’impiego degli oppiacei nel dolore cronico degenerativo le indicazioni riguardano pazienti nei quali vi sia la presenza di dolore cronico di grado >4/10 su VAS (si ribadisce l’importanza della misurazione ripetuta nel tempo del dolore nel singolo paziente), la certezza della diagnosi clinica, insieme al fallimento di altre strategie terapeutiche. Con questi presupposti, nel rimandare alla lettura di monografie dedicate, può essere raccomandato l’utilizzo di molecole con azione agonista sui recettori μ, quali il tramadolo, la codeina, la buprenorfina, l’ossicodone, il fentanyl e l’idromorfone, il tapentadolo.

Conclusioni
Il medico che si prende cura di un paziente anziano con dolore cronico dovrà essere un esperto terapeuta sul piano farmacologico, ma anche saper trattare il dolore cronico come una malattia globale: in altre parole, dovrà tenere in piena considerazione le problematiche psicologiche, attitudinali e personali del paziente – in un quadro di approccio olistico al soggetto anziano sofferente.

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