Riflessioni sul vivere e il morire

In questo numero di Pain Nursing Magazine, lo spazio riservato ai Gruppi di studio di infermieristica del dolore della Fondazione Procacci ospita una riflessione di Manuela Rebellato.
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Mi è stato chiesto di scrivere un’opinione, una qualunque su di un argomento di Geriatria a scelta ed ecco allora lo sconcerto da foglio bianco: sono innumerevoli le cose che si potrebbero e si dovrebbero scrivere, argomenti su cui interrogarsi e formulare coraggiosamente il pensiero e il proprio sentire.
Si è quindi affacciato alla mia memoria, prendendo forma e consistenza, il ricordo della rappresentazione teatrale de “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello, il tema di fondo rappresentato dallo stato di essere di un uomo che non riconosce più sé e neppure il proprio modo di guardare al mondo, alla propria vita e a quella degli altri: il suo medico gli ha comunicato che gli restano solo pochi mesi di vita a causa di un male devastante:
“…Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è cosí sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noie… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sí, sí. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noia… e arrivo finanche a dire, questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura… sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà… che gusto, queste lagrime… E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… specialmente quando si sa che è questione di giorni.”
È un atto unico, tratto dalla novella Caffè notturno, ci sono l’Uomo e l’Interlocutore che si confrontano sul senso della vita: l’Uomo che sta per morire (il fiore rappresenta la metafora dell’epitelioma) e per il quale la vita assume un nuovo significato e impone un’attenzione intensa e rigorosa, e l’interlocutore che riproduce la condizione di normalità di chi si sente padrone del tempo, e si lascia trascinare e coinvolgere dai banali eventi quotidiani.
Quello che all’inizio è un dialogo presto scivola nel monologo dell’Uomo, in un dire a se stesso, egli si sente ormai solo più uno spettatore del mondo e ciò che cerca, vede e prova appartiene già a un mondo differente:“…Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… – ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire… sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego?”
Fin qui poco di nuovo, tutti sappiamo che alcuni beni si apprezzano solo nel momento in cui vengono irrimediabilmente perduti; ben oltre l’eccesso che di questa frase si è fatto, è comunque opportuno ammetterne la verità.
Quante volte però ci soffermiamo a pensare agli uomini col fiore in bocca che incontriamo, curiamo e di cui ci prendiamo cura? In fin dei conti molti di essi non hanno tantissimo tempo innanzi. Non propongo con queste righe una deriva relativamente pietistica né tanto meno l’odioso buonismo, ma suggerisco la riflessione che noi spesso rappresentiamo per il paziente, l’Interlocutore del Pirandello e come tale veniamo posti sotto la lente, i particolari mancanti vengono immaginati sino ad acquisire caratteristica di verità:
“…Attaccarmi cosí – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata…”
“…Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla…”
“…Ma è che certi richiami d’immagini, tra loro lontane, sono cosí particolari a ciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze cosí singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di piú illogico, spesso, di queste analogie…”
Nella rappresentazione del Pirandello accade che l’Uomo dal fiore in bocca raffiguri la vita, seppure il tempo scorra ed egli sappia di averne poco non perde un solo istante, attento ad ogni colore a ciascuna emozione, al singolo pensiero, a fermare e dilatare l’attimo; l’Interlocutore, preso dai suoi piccoli affanni quotidiani, si limita a sopravvivere lasciandosi scorrere addosso il tempo e le cose, trascinato dalla propria incuranza, si avvia verso l’insipienza esistenziale e con altrettanta non curanza diventa egli stesso la rappresentazione della morte.
“E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione. All’alba, lei può fare la strada a piedi. Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò […]. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando […]. Buona notte, caro signore. “

Manuela Rebellato
Responsabile Counselling, Ospedale a Domicilio. Geriatria, UVA, Cure intermedie-Post Acuzie
AOU Città della Salute e della Scienza, Torino, Presidio Molinette