Il dolore cronico che si fa arte: l’esempio di Frida Kahlo

 “Guarire è forse un’arte, o l’arte è un modo per guarire?”
Robert Lowell

Introduzione

Il dolore viene definito dalla IASP (Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore) come “una spiacevole esperienza sensoriale ed emozionale associata con un danno tissutale, effettivo o potenziale, o descrivibile in termini di tale danno”.Il dolore acuto, che è transitorio, si differenzia dal dolore cronico, che diventa uno spiacevole ostacolo all’esistenza e va a modificare il precedente livello di funzionamento, fisico, psicologico e sociale. Mentre il dolore acuto è un sintomo, il dolore cronico diventa una malattia che modifica sovente la qualità della vita di un individuo e che lo costringe ad una relazione privilegiata con la sua sofferenza. Ogni dolore è un evento traumatico che irrompe nella nostra vita in maniera improvvisa, che travolge e spezza la continuità dell’abituale senso di sicurezza psicofisico provocando una perdita dello stato precedente di funzionamento, che sia momentanea (nel dolore acuto) o definitiva (nel dolore cronico); perdita che spesso socialmente si traduce con la perdita del lavoro, delle amicizie, della propria autonomia ed indipendenza, dipende comunque sempre dal grado di disabilità.Mentre il dolore abbraccia il piano fisico di sperimentazione del danno tissutale (l’organo è raggiunto da uno stimolo, che il cervello traduce in dolore), la reazione emotiva alla percezione dolorosa è quella che definiamo con il termine sofferenza, che rende il vissuto maggiormente soggettivo, di maggiore difficoltà sia nella misurazione che nella quantificazione.
Per la psicanalisi l’atto creativo è la forma più pura di sublimazione. In realtà Freud non si pronunciò mai in forma diretta sulla genesi del processo creativo, ma si fermò alle soglie del problema. Gli atti creativi assomigliano per certi versi ai sogni, e anche al gioco infantile. Provengono da un medesimo fondo immaginativo ed emotivo che, tuttavia, ciascuna di queste attività può elaborare in modo differente (1).
Un’interessante chiave di lettura viene proposta da Ferrari (2), che la avanza per la categoria degli scrittori, ma potremmo generalizzarla ad ogni categoria artistica se leggiamo la “creazione creativa” in termini di catarsi, liberazione. Egli crede che scrivere sia un far fronte al dolore di una perdita, all’angoscia, al senso di colpa o più semplicemente alle molteplici frustrazioni dell’esistenza e queste premesse fanno chiaramente sfociare il sentimento nell’artista in qualcosa di tanto personale quanto estremo, dunque arte come riparazione e risposta al trauma per non cadere nella disperazione.
Una considerazione simile veniva posta nel 1907 da Rank, secondo cui gli individui inclini a depressione e ansia potrebbero scegliere di esercitare professioni artistiche in quanto offrono loro l’opportunità di risolvere conflitti interni in una maniera creativa (3).

L’arte nel dolore e il dolore nell’arte

Sembra quasi che il dolore sia un bozzolo dal quale l’arte emerge. Migliaia sono gli esempi di opere d’arte nate dal dolore più profondo del corpo, quello che Eugenio Borgna definisce dell’anima. Molti sono questi riferimenti letterari all’arte come compensazione di un’angoscia mentale, ma meno si discute dell’arte come compensazione di un dolore fisico, seppur si sa che ad un dolore fisico cronico fa seguito quasi necessariamente un dolore mentale.
L’interazione tra depressione e dolore è infatti uno dei fenomeni più significativi e ponte tra la psichiatria e la medicina, ancora forse sottovalutata per l’impatto che ha sia sulla sofferenza di milioni di persone sia sul piano dei costi assistenziali (4). In fondo la depressione è il primo disturbo che si presenta in comorbidità nei pazienti con dolore cronico, tanto che in base alle statistiche ufficiali più della metà dei pazienti con dolore vivono uno stato di depressione (5).
Quando la condizione umana è sommersa dal dolore indicibile della malinconia, una delle tematiche emergenti è quella del dissolversi della speranza e del dilagare dell’angoscia; si è in un mondo in cui il tempo non passa mai e diventa una prigione. È perforando quel silenzio attraverso l’utilizzo dell’arte che probabilmente la malinconia prende a parlare.
In effetti, se ci si sofferma sul concetto, talvolta i dipinti hanno l’odore dell’angoscia e della disperazione, un po’ come comunica il messaggio sottostante alla nascita del capolavoro di Munch, “L’urlo”: “Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo…Mi fermai e guardai al di là del fiordo, il sole stava tramontando, le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando” (6).
Spesso si sente parlare di arte e malattia mentale, come quasi ci fosse un pregiudizio velato attorno alla figura dell’artista. Una recente ricerca (7) che ha raccolto i punti di vista di un campione di 1132 Italiani, ha confermato lo stereotipo secondo cui l’artista sarebbe una figura tormentata dall’inquietudine e dall’incomprensione. Il creativo quindi, sarebbe più soggetto ad esser percepito come profondamente asociale, al margine delle convenzioni, sofferente e in solitudine. Non da meno sono le etichette psichiatriche assegnate dai soggetti all’artista, visto come un pazzo, un depresso o un folle, quasi a sancire la sua diversità dalla gente comune. Una figura quindi malinconica, fragile, ipersensibile e introspettiva, che sublima la sofferenza in una conoscenza del mondo più profonda e con nuovi significati.
L’artista tormentato ha sempre gettato quell’aura di mistero e attrattiva attorno alla sua figura. Anche i Wittkower, in epoche recenti, nel loro libro “Nati sotto Saturno” esprimono l’idea secondo la quale l’artista tormentato è una realtà storica, e liquidandola come errata si nega l’esistenza di un simbolo generico e profondamente significativo (8).
Chiaramente la sofferenza provata da scrittori e artisti non è sempre il risultato di uno stato patologico fisico o mentale. Spesso è il lato banale, come peraltro quello universale, delle esperienze della vita, che si combina con un temperamento straordinariamente sensibile, sino a produrre un accresciuto senso di vulnerabilità, di consapevolezza, di sofferenza e di senso della futilità (9).
L’arte, fungendo da contenitore delle angosce, avvicina l’individuo alla realtà stessa; in qualche modo fare arte significa sublimare ciò che a parole non si riesce ad esprimere, e questo ci consente di dare un significato al dolore. I versi e la creatività hanno concesso a Sylvia Plath uno spazio sicuro in cui rifugiarsi dalle sue angosce (10). Antonia Pozzi scriveva del dolore come compagno di ogni esistenza, e la sua poesia era un ponte che le permetteva di oltrepassare le oscure voragini della terra, dalle quali però sarà inghiottita a soli 21 anni (11). La poesia in Alda Merini nasce dall’urgenza di trovare la giusta terapia antidolore, pur volendolo ricordare in tutto il suo spessore; le note hanno permesso a Luca Flores di galleggiare nel limbo e di non farsi travolgere dai pensieri negativi.
E lo stesso dicasi per le opere pittoriche: ad esempio, per Vincent Van Gogh, Edward Munch e Antonio Ligabue la malattia si è manifestata anche come disadattamento socio-relazionale, come incapacità comunicativa tra sé stessi e il resto del mondo; si può dire che la loro attività artistica, la possibilità di creare opere d’arte abbia in qualche modo ripristinato la capacità comunicativa, attraverso l’espressione, in forma pittorica, della dimensione simbolica dei loro vissuti interiori e forse, attraverso l’espressione di conflitti inconsci irrisolti, esternati e sublimati nell’oggetto artistico (12). Lo schermo delle tele, infatti, ha permesso a Edward Munch di non essere annientato dal vuoto, dal terrore e l’angoscia della follia, in una tensione costante di lotta (13). Esseri umani senza tempo, privati del passato e della speranza del futuro, che attraverso la produzione di immagini artistiche ritrovano una dignità esistenziale (14).

L’arte come maniera per sopravvivere: l’esempio di Frida Kahlo

“L’angoscia e il dolore. Il piacere e la morte non sono nient’altro che un processo per esistere”
Frida Kahlo

Uno degli esempi più evidenti di artista che si è cimentata col proprio dolore traducendolo egregiamente in arte appare essere Frida Kahlo (1907-1954), una delle più importanti pittrici messicane del secolo scorso. Alla nascita era affetta da spina bifida, inizialmente scambiata per poliomelite, per questo aveva iniziato a camminare tardi e le si era arrestato lo sviluppo della gamba destra (15). A 18 anni rimase vittima di un grave incidente stradale in cui una trave metallica le perforò il bacino, e dal quale ne uscì viva per miracolo e dopo decine di operazioni che la inseguirono per tutta la vita. Era pertanto afflitta da continui dolori alla schiena a causa della scoliosi e soffriva di problemi circolatori che avrebbero portato prima all’amputazione delle dita dei piedi e poi della gamba destra nel 1953, due anni prima della sua morte. La sua malattia invalidante la fece precipitare in profondi stati depressivi che fanno inoltre ipotizzare la sua morte per una volontaria overdose di Demoral, da cui era dipendente. Tuttavia la causa ufficiale della sua morte resta l’edema polmonare (16).
Ironicamente l’incidente del 1925 che quasi uccise Frida la trasformò in una delle pittrici più rivoluzionarie del mondo, e l’arte divenne l’unico modo per sopravvivere alla terribile agonia delle sue ferite. La pittura divenne così la sua ossessione, ed un modo per affrontare il suo trauma. È come se prendere il proprio dolore e trasferirlo in un dipinto fosse quasi un modo per liberarsene ed esorcizzarlo.
La Kahlo ha prodotto più di duecento opere nella sua vita, molte delle quali raffiguranti il suo corpo sofferente, ognuna con un proprio profondo significato, ma le tre sulle quali vorrei soffermarmi in questo articolo sono quelle che comunicano a mio avviso in misura maggiore il sentimento di dolore e sofferenza che l’ha accompagnata per tutta la sua vita.
I soggetti della Kahlo sono pieni di passionalità, ma anche aggressività che traspare dall’utilizzo di corone di spine, di cuori pulsanti fuori dal corpo, del rosso sangue, soprattutto sgorgante dal suo corpo. Ne è un esempio il soggetto che ritrae nell’opera intitolata all’Ospedale nel quale aveva subito un aborto, l’Henry Ford Hospital (Figura 1). La troviamo intenta a fare i conti con la perdita del tentativo di generatività, che a quanto pare la segnerà per tutta la vita. Un corpo nudo rassegnato di fronte alla sua fragile caducità.

Figura 1. Ospedale Henry Ford (1932). Museo Dolores Olmedo Patino, Città del Messico
Figura 1. Ospedale Henry Ford (1932).
Museo Dolores Olmedo Patino, Città del Messico

La colonna spezzata è uno degli emblemi dell’opera della Kahlo (Figura 2), un corpo martoriato da chiodi e trafitto da una trave. Salta all’occhio l’assenza di sangue (interessante notare che è stato dipinto 19 anni dopo il terribile incidente che la rende disabile) quasi a significare di aver già fatto a lungo i conti con la sofferenza, ma il martirio non si cancella né si racconta, gli si può dare solo un colore. Lei stessa in quel suo autoritratto rende presente ciò che per il suo destino è sia il passato che il futuro, il dolore che ha affrontato e quello cui è destinata ancora in futuro.

fig 2 art e malattia
Figura 2. La colonna spezzata (1944).
Museo Dolores Olmedo Patino, Città del Messico

Lo stesso messaggio universale viene comunicato nel cervo ferito (Figura 3), in cui però la stasi dell’animale a riposo entra nel paradosso del sangue che sgorga dalle ferite e l’animale, quasi rassegnato, attende la morte. In termini esasperati in questo dipinto la Kahlo presta il suo volto all’animale, connaturato di occhi addolorati che disarmano l’osservatore per la dignità che questi comunicano, e gridano contro la prigionia a cui la sofferenza li ha sottoposti e li continua a sottoporre.

fig 3 art a malattia
Figura 3. Il cervo ferito (1946). Collezione privata, Città del Messico.

Conclusioni

Come si può notare, molti sono i riferimenti all’arte come compensazione di un angoscia mentale, ma meno si discute dell’arte come sublimazione per un dolore fisico seppur si sa che ad un dolore fisico cronico fa seguito sovente un dolore mentale.
Non si sa in realtà se sia il dolore fisico che fa approdare l’aura artistica di sublimazione nell’uomo o se la sua conseguenza diretta relativa alla sofferenza provata, che si traduce in depressione nella maggior parte delle persone che sperimentano un dolore fisico cronico.
A mio avviso non v’è ancora una cultura ampia attorno alla concezione dell’arte nel dolore fisico. Basti pensare alla quantità di collezioni artistiche o mostre su produzioni di malati mentali, ricordiamo ad esempio la Cunningham Dax Collection in Australia, una delle collezioni più grandi al mondo che raccoglie manufatti artistici di persone con malattia mentale (http://www.daxcentre.org), o ancora delle mostre che sono state svolte negli scorsi anni in Italia relative a opere artistiche di malati psichiatrici, ad esempio Alchimie dell’arte: dell’irriducibilità dello spirito saturnino.
Molte meno invece sono le mostre relative al legame tra dolore fisico e arte. L’unica, peraltro trovata dopo un’attenta ricerca sull’argomento, si riferisce ad un’iniziativa Americana, Pain Exhibit, un’esibizione di opere eseguite da artisti con dolore cronico, e disponibile online all’indirizzo http://painexhibit.org/. L’ideatore, l’americano Mark Collen, racconta che in seguito al pensionamento del suo medico aveva difficoltà a esprimere al suo nuovo dottore la reale natura del suo dolore, decise così di esprimerlo attraverso dei dipinti, che resero bene l’idea del suo stato ai medici; le parole possono essere limitanti, ma l’arte elicita delle risposte emozionali di più immediata comprensione.
Si è visto quindi che non vi sono studi che svelino in realtà il legame che potrebbe sussistere tra dolore cronico e sublimazione in un’attività artistica, a differenza di decine di studi che dimostrano la presenza negli artisti di malattie mentali. Resta comunque l’ipotesi che fare arte, a livello di professione o di hobby, funga da distrattore e aiuti il processo di diminuzione del dolore, in fondo ci sono degli studi che confermano il ruolo della distrazione come attenuante del dolore (17).
Stando male acquisiamo quelle antenne rabdomantiche che solitamente non abbiamo; quando la sofferenza è così forte e lacerante da chiudere gli orizzonti della speranza ognuno di noi dovrebbe saperla riconoscere o reinventare, e cosa meglio dell’arte, che non parla, ma anzi utilizza il linguaggio dell’emozione, potrebbe dar parola o immagine al dolore.
Cercare una maniera alternativa per comunicare il dolore è essenziale, oltre che doveroso, per i pazienti sofferenti, molti dei quali talvolta non ricevono trattamenti adeguati, anche per incomprensione del grado del loro dolore. Tener conto di canali alternativi di comunicazione potrebbe essere una via terapeutica percorribile nel futuro della terapia del dolore, come già alcune ricerche hanno dimostrato (18).
Al di là di tutto, non è mia intenzione asserire che la migliore arte nasca dalla sofferenza in quanto, per definizione, esperienza soggettiva, quindi diversa da individuo a individuo. Ritengo tuttavia che l’arte oltre che apparire come una “perseveranza nella difficoltà” (19) possa rappresentare quel canale che permette un miglior reflusso della comprensione empatica che avvicina al dolore dell’altro.
Forse aveva ragione Antonin Artaud nell’affermare che “nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non, di fatto per uscire dall’inferno”.

Bibliografia

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2. Ferrari S. Scrittura come terapia. In: Ricci Bitti P. E. (a cura di) Regolazione delle emozioni e arti-terapie. Roma:Carocci editore  1998: 165-187.
3. Rank O. L’artista: approccio ad una psicologia sessuale. I ed. 1907. Milano:     SugarCo, 1994.
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7. Totaro S, Colucci E. Suicide and artists: stereotypes and beliefs. Rivista di  Psicologia clinica, 2012; 2: 112-128.
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9. Jamison KR. Toccato dal fuoco: temperamento artistico e depressione. Milano:  Longanesi & Co, 1994.
10. Di Pasquale M. Sylvia Plath: la scrittura-difesa di una bambina che voleva essere   Dio. Psychomedia, 2005 (consultato il 12 dicembre 2008). Disponibile all’indirizzo   http://www.psychomedia.it/pm/culture/literdx1.htm.
11. Borgna E. L’arcipelago delle emozioni, Milano: Feltrinelli, 2001.
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Linkografia
–   http://www.daxcentre.org
–    http://painexhibit.org/
–   Le opere di Frida Kahlo sono visibili nel sito: http://www.frida-kahlo-foundation.org/