Le comorbidità emergenti nel dolore cronico: ansia e disturbi di personalità

Introduzione

Oggi nei Paesi industrializzati il dolore cronico rappresenta una condizione clinica sempre più economicamente dispendiosa a causa della stretta connessione con la disabilità e la sfera assistenziale. È stato ampiamente dimostrato che nella comprensione del dolore cronico risultano essere fondamentali, non solo i fattori sociali, ma anche la valutazione psico-adattativa dell’individuo. Il dolore cronico attualmente è considerato, con largo consenso, un fenomeno biopsicosociale, in cui i fattori biologici, psicologici e sociali interagiscono dinamicamente uno con l’altro in un sistema dinamico e mutevole (1). In seguito a una rigorosa analisi dei fattori psicologici coinvolti nella genesi e nel mantenimento dei quadri algici è divenuto sempre più evidente come il dolore cronico sia associato ad alti tassi di psicopatologia facilmente evidenziabile. Ci sono diverse ragioni per cui è importante identificare potenziali elementi psicopatologici in pazienti con dolore cronico. Innanzitutto, il disagio psicologico misconosciuto e non trattato può interferire significativamente con il successo della riabilitazione di questi pazienti (2). I programmi di riabilitazione senza un adeguato supporto psicologico potrebbero essere “destinati a fallire” (3). La presenza di una condizione psicologica disfunzionale preesistente o di una vera patologia psichiatrica può anche incrementare l’intensità del dolore e la disabilità, in modo da perpetrare la disfunzione dolore-correlata. È stato dimostrato che l’ansia riduce la soglia e la tolleranza al dolore (4), ansia e depressione sono state associate all’amplificazione delle sindromi dolorose (5), mentre la depressione è associata a risultati di minor entità in termini terapeutici (6); infine, il distress emozionale è stato collegato a sintomi fisici mediante attivazione autonomica, vigilanza e misinterpretazione (7), o anche amplificazione somatica (8). La relazione tra psicopatologia e dolore cronico può essere differente per le singole condizioni dolorose e può anche differire in base al contesto clinico. Per esempio, la capacità reattiva di un individuo al dolore cronico associato a tumore maligno avanzato, in un particolare contesto psicosociale, non può essere raffrontabile alla risposta affettivo-comportamentale di un pari soggetto di fronte a un dolore cronico benigno in cui vi è certamente un’aspettativa di guarigione, anche se non di una completa restitutio ad integrum. Un aspetto meno conosciuto è l’incapacità di valutare correttamente i reali e significativi cofattori psicologici che rendono difficoltoso far fronte al dolore cronico (9). Le comorbidità che più frequentemente si presentano sono la carenza di riposo notturno, i disordini della sfera umorale, quali l’ansia e la depressione che nascono dagli stressors negativi derivanti dal vivere con dolore. In aggiunta a queste strette relazioni psicologiche con il dolore, la privazione cronica del sonno nei normali individui è associata a una soglia del dolore ridotta, mentre la deprivazione acuta dello “stadio 4” del sonno è associata a disturbi muscoloscheletrici transitori e alterazioni d’umore (10). È quindi ragionevole concludere che la mancanza di sonno nei pazienti con dolore cronico può esacerbare la sintomatologia dolorosa (11). Ulteriori elementi di comorbidità che più di altri si evidenziano nella disamina di queste forme complesse di dolore cronico sono l’interferenza con il lavoro, con le relazioni interpersonali, con gli hobbies e le altre attività quotidiane. Queste comorbidità impediscono il benessere del paziente per via dell’impatto negativo sulla funzionalità globale e sulla qualità della vita, nelle sue più varie accezioni (12). Fishbain ha revisionato gli studi sulla prevalenza delle comorbidità psichiatriche con il dolore e ha revisionato in modo specifico la classificazione multiassiale del dolore (DSM IV) (13). Le connessioni morbose tra dolore cronico e disordini dell’Asse-1 del DSM IV sono stati studiati e documentati in modo esaustivo. La depressione è il più comune dei disturbi dell’umore (14), poiché alcuni studi mostrano un tasso di prevalenza pressoché del 100% nei vari campioni clinici di dolore cronico analizzati (15). Sebbene la maggior parte dei disturbi inizino con lesioni o malattie organiche, successivamente il decorso, gli esiti e i costi assistenziali finali risultano condizionati dai fattori emotivi, comportamentali, sociali e lavorativi associati alla condizione morbosa primitiva (16). La capacità emotiva del paziente e la sua abilità nell’affrontare il decorso, spesso inatteso, di un disturbo caratterizzato da dolore cronico, con relative riesacerbazioni e complicanze, definiscono quadri complessi che comprendono disabilità fisica, inabilità lavorativa, mancanza o deficit di funzione che, insieme, influenzano anche il risultato e il costo complessivo della patologia. Quindi, è importante, quando si trattano pazienti con dolore cronico, porre accurata attenzione alle comorbidità, soprattutto di natura psichica.

Il modello a “tre stadi”

Gatchel (17) ha sviluppato un modello concettuale a “tre stadi” che consente di chiarire il passaggio di un dolore da acuto a cronico e l’associazione con i fattori di distress psicosociale. Gatchel evidenzia che i processi di cronicizzazione del dolore determinano significativi cambiamenti psicologici, producendo “una messe di problemi comportamentali e/o psicologici stratificati al di sopra della normale nocicezione o esperienza del dolore stesso”. Lo stadio 1 del Modello di Gatchel è associato a normali reazioni emotive come paura, ansia e preoccupazione, come conseguenza della percezione del dolore nel corso della fase acuta. Se il dolore persiste oltre la fase del normale periodo di tempo previsto per la guarigione di un dolore acuto (2-4 mesi) l’individuo entra nello stadio 2. Questo stadio è associato a un più vasto corteo di problematiche e reazioni comportamentali e psicologiche, come astenia, malessere generale, distress, ira e somatizzazione, che sono la conseguenza e la fonte della sofferenza, ciò che maggiormente accompagna la natura cronica del dolore. Gatchel ipotizza che la fenomenologia di questi problemi assuma le sembianze delle caratteristiche psicologiche preesistenti della personalità dell’individuo affetto da dolore poichè su di esso insistono fattori socioeconomici correnti e condizioni ambientali, quali la famiglia, gli amici, la socialità. Questo stadio del modello riflette una prospettiva diatesi-stress, in cui lo stress di far fronte al dolore cronico esacerba le caratteristiche preesistenti dell’individuo (diatesi). Secondo l’ipotesi di Gatchel, se queste reazioni e problemi persistono, la vita dell’individuo inizia a ruotare completamente intorno al dolore, come risultato e innesco della cronicità. L’individuo entra quindi nello stadio 3, che può considerarsi come l’accettazione o l’abitudine ad alcuni aspetti del “ruolo di malato”. Il “ruolo di malato” determina una reazione di fuga dei pazienti dalle loro normali responsabilità e obblighi sociali, che può diventare un potente alibi e il più grande ostacolo da affrontare per ottenere la guarigione. Sebbene il modello di Gatchel abbia aggiunto numerosi elementi di chiarezza concettuale alla relazione tra dolore cronico e psicopatologia, una fase successiva di ricerca si focalizza sul determinare se i disordini psichiatrici siano un fattore limitante nel successo riabilitativo dei pazienti con dolore cronico.

Dolore cronico e disturbi d’ansia

In alcune indagini eseguite negli USA il disturbo d’ansia, nelle sue varie manifestazioni, è la patologia psichiatrica più diffusa, con un quarto della popolazione che ne presenta sintomi attuali o pregressi, mentre un quinto della popolazione riferisce di aver sofferto di almeno un disturbo dell’umore nell’arco della vita (18). Diversi studi hanno documentato elevate prevalenze di disturbi d’ansia tra i pazienti con dolore cronico (19-21). Il disturbo d’ansia è un’entità nosologica in cui sono incluse numerose e differenti manifestazioni cliniche: il disturbo di panico, l’agorafobia, la fobia specifica, la fobia sociale, il disturbo da distress post traumatico, il disturbo ossessivo compulsivo e il disturbo d’ansia generalizzato. Sebbene in letteratura ci siano opinioni discordanti sull’incidenza delle varie manifestazioni cliniche del disturbo d’ansia, nei pazienti affetti da dolore cronico il disturbo di panico e il disturbo d’ansia generalizzato sembrano essere quelli più frequentemente associati. Gli studi che hanno utilizzato l’intervista clinica strutturata, come previsto dal DSM, hanno mostrato una prevalenza per i disturbi d’ansia che varia dal 16,5% al 28,8% (22). Contestualmente, evidenze recenti suggeriscono che i disturbi d’ansia siano quelli maggiormente associati al dolore cronico; infatti, diversi studi (23-24) hanno evidenziato che i pazienti con dolore cronico hanno sì tassi molto più alti di patologie psichiche rispetto ai pazienti con dolore acuto, ma hanno altresì indicato che il disturbo d’ansia insorge anche nei pazienti con dolore acuto. Questi dati supportano il modello di Gatchel  (2, 25), della progressione del dolore acuto in  dolore cronico, in cui l’ansia è considerata fattore comune che da semplice espressione di reattività psicologica al dolore diventa una vera e propria psicopatologia associata al persistere delle condizioni algiche, creando a sua volta la disabilità profonda e complessa che si accompagna alla cronicità. Una volta che la condizione ansiosa si è instaurata, il dolore cronico può essere mantenuto o aggravato dagli stessi meccanismi neuro-fisiologici (1). La paura del dolore e la paura dello stesso in risposta al movimento, porta ad un ulteriore condizionamento fisico, dal momento che si evitano quelle attività che provocano dolore preferendo quelle che hanno una valenza “antalgica” (26). L’evitamento, quindi, a sua volta, risulta potenziato mediante meccanismi di apprendimento operativo. Le risposte distimiche si desumono, anche, ad esempio da responsabilità indesiderate che possono essere sistematicamente evitate o può essere ridotta l’ansia anticipatoria evitando esperienze correlabili all’insorgenza del dolore (27). Si giunge così alla concettualizzazione, anche in algologia, di self-efficacy. Le persone, in condizioni “normali” cercano di esercitare un controllo sugli eventi che riguardano la loro vita per prevenire ansia, apatia o disperazione che si possono generare da situazioni ritenute spiacevoli o dannose. Il concetto di “autoefficacia”, in generale, si riferisce alla “convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a gestire adeguatamente le situazioni che incontreremo, in modo da raggiungere i risultati prefissati. Le convinzioni di efficacia influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e agiscono”. Nella cronicità possono elicitarsi fattori di apprendimento che talvolta si manifestano con annullamento della self-efficacy e con l’esagerata aspettativa del sopraggiungere del dolore rispetto a qualsiasi forma di stimolo o attività esterna. Questi meccanismi svantaggiosi rafforzerebbero l’annullamento della self-efficacy, instaurando un circolo vizioso tra apprendimento cognitivo e condotta comportamentale (28). A sostegno di ciò  si esprime uno studio che dimostra come la paura e l’evitamento dolore-correlato sono causa di disabilità e perdita di lavoro in relazione al chronic low back pain (29). Un ulteriore fattore cognitivo-comportamentale che può  contribuire a mantenere il dolore cronico è la tendenza dei pazienti ansiosi ad interpretare erroneamente, in maniera catastrofica, gli stimoli associati al dolore (26). Un dolore acuto importante attiva risposte correlate allo stress, mediate dai sistemi noradrenergici cerebrali, accompagnandosi con reazioni cognitivo-emozionali come paura ed ansia, che, in qualche misura, si determinano contestualmente. L’associazione di dolore, ansia e depressione può essere definita da un comune substrato neurochimico nei sistemi serotoninergici (30). I pazienti con frequenti episodi di dolore presentano sintomatologia ansiosa proprio a causa dello stress di convivere con il dolore. Un grave trauma riportato in condizioni belliche, ad esempio, può portare allo sviluppo di distress post-traumatico, così come un incidente automobilistico può essere causa di importanti lesioni organiche dolorose, ma può esitare anche nella successiva paura di guidare, come risultato di un’ansia anticipatoria invalidante e severa. La compresenza, inoltre, del disturbo ossessivo compulsivo e del dolore cronico rende le singole condizioni più difficilmente controllabili. Il paziente adotta atti motori compulsivi, come ad esempio rituali di pulizia o attività riflesse complesse che possono evocare o scatenare algie difficilmente esplicabili come quelle di natura neuropatica.  Si stima che il 2% della popolazione generale soffra di  disturbo ossessivo compulsivo (OCD) (31). Un’ossessione è un pensiero, un sentimento, un’idea o una sensazione ricorrente e persistente, mentre una compulsione è un modello di comportamento ricorrente, cosciente e standardizzato. Le persone con questo disturbo sono consapevoli che le loro azioni sono irrazionali e sproporzionate. Il riconoscimento e il trattamento adeguato di questo disturbo sono spesso l’ultimo elemento della diagnosi associata al dolore. Il che comporta un notevole discomfort e un ritardo diagnostico difficilmente colmabile. Gli attacchi di panico sono caratteristici di un’ampia varietà di disturbi psichiatrici: se questi sono ricorrenti e associati a notevole apprensione e a repentini cambiamenti di umore, questi diventano la manifestazione centrale del disturbo di panico. Gli attacchi di panico sono, per definizione,  bruschi ed intensi, con sintomi somatici riferibili a vari distretti corporei. Questi pazienti, ad esempio, si presentano spesso al pronto soccorso lamentando dolore toracico. La fobia sociale è, al contrario, una paura sproporzionata e persistente che si manifesta nei confronti di una data performance o nei confronti di un ambiente sociale. Può includere intensa ansia anticipatoria. Spesso è associata alla paura dei giudizi altrui e a una bassa autostima. Può essere generalizzata, coinvolgendo diverse situazioni o specifica per un particolare evento. Spesso questo è un problema che tende a recidivare per tutta la vita, che di solito il paziente gestisce con condotte di evitamento, che limitano le opportunità e le capacità personali. Il disturbo d’ansia generalizzato (GAD) è un disturbo subdolo e c’è spesso un ampio periodo di latenza tra l’inizio della psicopatologia e il suo riconoscimento con relativo trattamento. Il GAD è caratterizzato da una preoccupazione sproporzionata del paziente, difficile da controllare; essa è associata a sintomi somatici quali tensione muscolare, facile irritabilità, disturbi del sonno e irrequietezza. I principi della psicoterapia per i pazienti con disturbi d’ansia sono simili a quelli per la depressione, ma con una maggiore enfasi sui metodi comportamentali. Il trattamento deve mirare ad aiutare il paziente ad apprendere specifiche capacità cognitive e comportamentali di coping per prevenire, interrompere o migliorare i sintomi di ansia. Il disturbo post traumatico da stress (PTSD) si verifica quando un evento traumatico o l’esposizione ad un evento traumatico viene rivissuto persistentemente, con conseguente evitamento degli stimoli associati all’evento e sintomi costanti di iperarousal o ipervigilanza. I pazienti affetti da PTSD, infatti, vivono in uno stato di tensione continua. I soggetti che hanno subito un evento traumatico, che ha lasciato tracce indelebili, hanno perso la capacità di modulare le risposte di “paura”, si sentono sempre “sul filo del rasoio”, nell’aspettativa continua di qualcosa di minaccioso e rispondono a qualsiasi stimolo con un’intensità adeguata a situazioni di emergenza. Stimoli debolmente ansiogeni o neutri determinano così ingiustificate manifestazioni neurovegetative. Nel contesto del dolore, la presenza di PTSD influenza la risposta ad un piano di riabilitazione, che deve essere individualizzata, caso per caso (32). Nel trattamento del PTSD è necessario che il clinico dia ai pazienti il tempo sufficiente per esprimere le loro storie. I medici dovrebbero spiegare la natura della PTSD ai sopravvissuti di guerre o catastrofi naturali e alle loro famiglie, incoraggiando i pazienti a parlare della loro esperienza traumatica, in un ambiente privo di tensione.

Aspetto sociale del dolore cronico, somatizzazione e disturbi della personalità

I pazienti con dolore possono essere arrabbiati, diffidenti, depressi, quindi difficili da trattare. L’indagine clinica può essere difficoltosa quando nel paziente prevalgono le emozioni negative, come antipatia, rancore e frustrazione, e soprattutto quando il trattamento non porta le risposte desiderate; tutto questo impedisce un dialogo efficace e alimenta sfiducia nel rapporto medico-paziente. L’impatto sociale del dolore può essere descritto in termini di interruzioni di attività precedenti da parte del paziente, interferenze nelle normali relazioni familiari o sociali, identitificazioni di comportamenti a rischio (33). È importante cercare questi meccanismi comportamentali in quanto il trattamento può essere focalizzato su ciascuno di essi. Questi processi, interruzioni, interferenze e identificazioni varieranno nelle diverse persone a seconda della persistenza del dolore. Il dolore acuto avrà effetti sia di impedimento di attività precedenti che di interferenze di natura temporanea, ma è improbabile che abbia un impatto sull’identità globale di una persona. Al contrario, il dolore cronico persistente, o ricorrente, e il dolore episodico frequente, come ad esempio un mal di testa cronico – recidivante -, può avere effetti profondi sulla vita di una persona. In altre parole, l’interferenza ripetuta nei compiti usuali e routinari di un individuo, essenziali per il raggiungimento dei diversi obiettivi quotidiani e per mantenere lo status sociale, sono fondamentali per l’inserimento della persona nella società e avranno notevole incidenza sul senso di sé o sulla propria d’identità (34). L’attenzione è un processo psicologico fondamentale che assicura il flusso regolare del comportamento. Gli stimoli dolorosi hanno la capacità di catturare l’attenzione e interrompere l’attività cognitiva e comportamentale. Le conseguenze emotive a breve termine sono caratterizzate da un aumento di umore negativo, in particolare di frustrazione, un aumento di paura collegata al dolore, la tendenza a catastrofizzare gli eventi e l’ansia rispetto al proprio stato di salute. I pazienti con dolore cronico lamentano infatti spesso deficit di memoria. Grisart e coll., hanno dimostrato che il dolore interrompe l’attività della memoria dichiarativa, mentre invece la memoria procedurale non risulta intaccata (35). L’interferenza è più probabile quando il dolore diventa cronico e i pazienti devono adeguarsi a convivere con esso. Se il dolore viene interpretato come un segnale di danno e di pericolo imminente, la persona tende ad evitare di intraprendere le attività che possono elicitarlo, per timore di soffrire. Evitando sistematicamente tali comportamenti si avrà progressivamente disabilità. L’impatto del dolore cronico sulla personalità di un individuo e il senso di sé (identità) è stato a lungo rappresentato anche  in arte e letteratura (36). Un paziente giovane può reagire più negativamente rispetto a  una persona anziana e venire a trovarsi in una condizione mentale che evoca una sensazione di intrappolamento – “self trapping”. In presenza di partner troppo attenti e premurosi, addirittura soffocanti, i pazienti diventano ‘meno brillanti’ sulle prove comportamentali. Allo stesso modo, si sostiene che le espressioni di dolore siano rinforzate dalla presenza di un partner premuroso, comportando un aumento del dolore riferito in loro presenza (37). I pazienti con dolore cronico possono, inoltre, mostrare una sensazione di grande fatica per evitare atteggiamenti condizionati dal dolore, nel tentativo di apparire “sani” rispetto agli altri, quindi di preservare il proprio senso di efficacia e competenza sociale. All’interno della famiglia e di ristretti gruppi sociali, la necessità di evitare l’immagine negativa di essere un peso per gli altri, può essere una forte motivazione, per nascondere la propria condizione di sofferenza fisica. La somatizzazione, infine, è diversa dal disturbo di somatizzazione (Sindrome di Briquettes) e comporta una diagnosi più complessa e controversa dal punto di vista psichiatrico (38). Lipowski l’ha definita come “tendenza a sperimentare e comunicare angoscia generando sintomi somatici non supportati da dati clinico-patologici realmente rivelati, attribuendoli a malattie fisiche per cui si cercano cure mediche” (39). Questo spesso si verifica con fibromialgia e sindromi da dolore miofasciale. La somatizzazione può essere anche un processo mediato dal dolore stesso. La tendenza a “somatizzare” inizia nell’infanzia e si presenta come dolore cronico, con la sindrome dell’intestino irritabile, con emicrania e preoccupazione cronica e può essere associata a malattie fisiche, specialmente il dolore cronico. Circa il 60-80% di questi pazienti, organicamente sani,  hanno sintomi somatici più volte nell’arco di una settimana (40). Essi hanno un rischio più elevato di complicanze iatrogene e le indagini epidemiologiche dimostrano che il trattamento psicologico, in questi pazienti, può evitare interventi farmacologici inutili e diminuire gli effetti collaterali degli stessi. I pazienti possono riferire con più enfasi sintomi somatici rispetto ai problemi psicologici: nelle realtà anglosassoni le compagnie di assicurazione spesso incoraggiano questo tipo di comportamenti, al fine di aumentare i premi assicurativi. Quindi, in quei casi, è da rilevare anche un rapporto tra somatizzazione, guadagno secondario e dolore (41). I disturbi di personalità giocano un ruolo importante nello sviluppo e mantenimento di condizioni di dolore cronico  – pain prone personality – (42). Essi interagiscono insieme ai fattori biologici nella reazione al dolore. È bene distinguere tra i tratti della personalità e i disturbi psicodinamici veri e propri. L’influenza della personalità, in particolare sul dolore cronico, è stata ampiamente studiata, ma non è mai stato dimostrato che un disturbo di personalità sia associato al dolore cronico. È stata invece oggetto di ricerca una predisposizione genetica o familiare al dolore cronico, che sarebbe utile approfondire alla luce di quanto fin qui esposto (43).

La Sensibilizzazione Centrale (CS)

Il quadro finora tracciato si colloca facilmente in una nuova concettualizzazione della fisiopatologia del dolore cronico e di molti disturbi “sine materia” di origine pluridisciplinare. Un ampio gruppo di 13 sindromi (44), fra cui la fibromialgia, l’emicrania e la cefalea tensiva presentano come denominatore comune l’evidenza di Sensibilizzazione Centrale (“central sensitization” o CS). La cosiddetta sensitization (sensibilizzazione) è un processo in cui lo stimolo necessario per generare una risposta nota, diminuisce nel tempo, mentre l’ampiezza della risposta allo stesso stimolo aumenta sproporzionatamente (45).  Si parla, in antalgologia, di una sorta di ipersensibilità agli stimoli dolorosi, di assenza di abitudine o assuefazione ai medesimi e in termini clinici di insorgenza di iperalgesia (risposta esagerata ad uno stimolo doloroso) e/o allodinia (dolore provocato da stimolo non doloroso). L’epifenomeno della CS è stato dimostrato per tutte le sindromi da sensibilizzazione centrale (CSS), come ad esempio nelle varie forme di cefalea, quali le emicranie. È ormai chiaro che la CS gioca un ruolo importante negli ultimi stadi dell’attacco acuto di emicrania e nello sviluppo delle forme croniche (46). Un lavoro comparso su Nature nel 1996 ha ipotizzato che i neuroni sensoriali meningei, come i nocicettori di altre parti del corpo, possano avere una responsabilità cruciale nella sviluppo di chemiosensibilità e neuro-ipereccitabilità (47). La progressione della sensibilizzazione dei nocicettori periferici verso i  neuroni centrali del sistema trigeminovascolare potrebbe spiegare molti dei fenomeni clinici associati all’emicrania. La sensibilizzazione periferica sarebbe provocata da fenomeni neuroinfiammatori sui nocicettori trigeminali durali e meningei, con il risultato di un abbassamento della soglia di attivazione dei medesimi e un aumento della risposta ai successivi stimoli. Nella modulazione della componente emotiva degli stimoli dolorosi indubbia importanza hanno i centri corticali del cosiddetto “core emotivo”, che principalmente risulta composto da: amigdala, ippocampo,  corteccia orbitofrontale e corteccia cingolata anteriore. Vi è evidenza che queste stazioni di processazione degli impulsi sensoriali esercitano a loro volta un effetto inibitorio sul circuito dell’amigdala (48). Questi sistemi neurotrasmettitoriali sono i protagonisti e i responsabili delle risposte agli stressor (Figura 1), in quanto costituiscono i fattori principali nella lettura, decodifica e trasduzione degli stimoli ambientali in risposte comportamentali e/o fisiologiche (49). Essi rappresentano gli step primari del cosiddetto adattamento allostatico (da allos=cambiamento + stasis=stabilità).

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Figura 1 – Vie serotoninergiche e noradrenergiche: origini e proiezioni. Interazioni e manifestazioni cliniche tra il tronco cerebrale e le aree cerebrali superiori.

In effetti, il concetto di omeostasi è stato revisionato e superato con quello più dinamico di allostasi. Quest’ultimo indica la capacità dell’organismo di rispondere alle minacce in anticipo con una reazione di allerta transitoria, al fine di mantenere un ambiente interno stabile, quindi una capacità di cambiare e modificare la propria condizione al fine di mantenere l’omeostasi. La chiave di volta di questo modello è l’identificazione del cervello come mediatore primario di allostasi. I processi centrali diventano il punto di interfaccia tra un fattore di stress nel suo contesto fisico e sociale e l’adattamento fisiologico e comportamentale dell’individuo a quel fattore di stress. Particolare importanza ricopre in tal senso l’amigdala, che “rappresenta l’epicentro degli eventi coinvolti nella modulazione degli stati d’ansia, nell’animale come nell’uomo, con un ampio spettro di connessioni reciproche con le strutture corticali, limbiche, implicate nella risposta emozionale, cognitiva, autonomica ed endocrina allo stress” (50). Vi sono crescenti evidenze sperimentali (di neuroimaging e laboratorio) di disfunzionamento nel core emotivo, associati in particolare a disturbi psichici. Infatti, studi di neuroimaging hanno evidenziato fenomeni d’iperattivazione dell’amigdala e dell’insula più frequenti nel disturbo d’ansia sociale e nelle fobie specifiche, mentre nel PTSD è stata dimostrata  ipoattività della corteccia cingolata anteriore e nella prefrontale ventromediale (51). Nel disturbo di personalità borderline sono state osservate risposte esagerate agli stimoli emozionali nell’amigdala e diminuite nella corteccia cingolata anteriore, mentre nel disturbo bipolare diversi studi di neuroimaging hanno riportato un aumento dei volumi dell’amigdala nei pazienti sofferenti rispetto ai sani (52, 53). Inoltre sono state riportate associazioni tra l’attivazione dell’amigdala e la regione polimorfica del gene trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) (54). Uno stato d’iperattività dell’amigdala quindi appare sicuramente correlato con l’ansia, con gli stati di allerta, di prolungata attesa che genera il dubbio di mettere in atto un cambiamento anticipatorio, allostatico. Il fine è quello primordiale di preservare l’omeostasi dell’organismo con tutte le implicazioni endocrine, autonomiche ed emozionali correlate. L’amigdala, inoltre, sta emergendo anche come un elemento importante della rete coinvolta nella processazione della componente emotivo-affettiva-comportamentale relazionabile con il dolore (55). Si pensa che essa sia un substrato fondamentale della relazione reciproca tra il dolore e disturbi come ansia e quadri distimici correlati. In un modello di dolore da artrite murina è stata dimostrata CS e plasticità sinaptica (56) nel nucleo centrale dell’amigdala (CEA), che integra le informazioni correlate all’affettività provenienti dal circuito della paura-ansia con input puramente nocicettivi provenienti dalla via del dolore spino-parabrachio-amigdaloidea (56). Una plasticità sinaptica correlata al dolore nel CEA è stata confermata anche in un modello di dolore neuropatico cronico (57).

Conclusioni

Essendo i centri del core emotivo interconnessi con vie ascendenti e discendenti nocicettive, si può ipotizzare che la presenza di disfunzionamenti a questo livello possa favorire risposte altrettanto anomale nella processazione del dolore e nella comparsa di quadri algici complessi. E di cronicità. Infatti, ove tali risposte disfunzionanti si prolungassero nel tempo, esse potrebbero produrre un aumento eccessivo di quel carico allostatico psico-organico che si traduce nella persistenza di neuro-endocrino attivazione  che elicita la sensibilizzazione centrale. Tale epifenomeno è così logorante a livello organico che il suo risultato è la comparsa di patologia a carico dei sistemi coinvolti con danni ormonali, autonomici e immunologici. In termini di mancata inibizione della CS, ciò potrebbe tendere a favorire l’amplificazione della stessa e in termini clinici la cronicizzazione del dolore. Un attacco emicranico, oltre ad essere favorito da trigger, è  un trigger esso stesso, nel senso di stressor, quindi fautore di una risposta allostatica a livello centrale. Quando quest’ultima è disfunzionante appare verosimile che nel tempo possa provocare un’ipersensibilità o, a ben guardare, una mancata assuefazione allo stressor stesso. Ciò determina una ridotta antinocicettività, che sicuramente favorisce la cronicizzazione del dolore e l’aumento della disabilità del medesimo, e potrebbe rappresentare l’anello di congiunzione fra la cronicizzazione del dolore e la presenza di alta comorbidità per disturbi emotivi. Ab origine generalmente esisterebbe sempre un primum movens doloroso periferico, sia che ci si riferisca ad emicrania, che a un trauma cranico,  a un colpo di frusta, al colon irritabile o una blanda lombalgia. Se però il sistema di processazione emotiva dell’evento doloroso è disfunzionante, ciò potrebbe produrre un’amplificazione, piuttosto che un’estinzione dell’evento stesso. Quando poi l’ampliamento dei campi recettivi sarebbe tale da portare alla diffusione del dolore oltre i suoi abituali territori d’innervazione, ciò finirebbe per favorire l’instaurarsi di fenomeni di diffusione esterna ed estrema del dolore, dei quali le fibromialgie rappresentano l’esempio più emblematico.

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