La diagnosi della sindrome fibromialgica: le frontiere della ricerca sull’approccio neurocognitivo e linguistico

Intervista al prof. Schweiger, professore associato di anestesiologia, terapia intensiva e del dolore presso l’Università degli Studi di Verona

Prof. Schweiger, la fibromialgia sta diventando un argomento di sempre più grande interesse nella comunità medica per i suoi risvolti clinici e sociali. Tuttavia, la maggior parte dei medici trovano ancora difficile addentrarsi negli aspetti caratterizzanti questa sindrome. Ci vuole chiarire quali sono i punti fondamentali che devono essere conosciuti per diagnosticare correttamente la fibromialgia?

Come ha giustamente sottolineato, la fibromialgia è ancora oggetto di grandi controversie, sia mediche che sociali. Ciò deriva a mio parere da numerosi fattori, solo in parte legati alle frammentarie conoscenze di una patologia che è sempre esistita ma che è emersa prepotentemente solo negli ultimi anni all’attenzione medica. Numerosi autori hanno evidenziato come nel complesso la sindrome sia soggetta a sovra o sottodiagnosi in relazione ai contesti in cui questi pazienti vengono valutati. Inoltre, non si è dato abbastanza risalto ai criteri diagnostici riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale, che peraltro sono costantemente aggiornati e rivalutati.

Quali sono tali criteri? Possono essere applicati facilmente anche da non specialisti della patologia?

Attualmente, per porre diagnosi di fibromialgia si ricorre ai criteri diagnostici elaborati dall’ACR (American College of Rheumatology) nel 2016 e che prevedono la combinazione di dolore diffuso in numerose aree corporee sempre associato a una varia combinazione di sintomi quali stanchezza, disturbi cognitivi, sonno disturbato e non ristoratore, dolori pelvici cronici, cefalea e depressione. Tale quadro deve essere presente da almeno 3 mesi. La possibilità che questa sindrome possa coesistere con altre patologie è stata recentemente riconosciuta, anche se spesso si presenta da sola senza altri quadri patologici concomitanti. Come vede, tali criteri sono facilmente applicabili, ma sono poco conosciuti in un ambito non specialistico.

Quindi è una diagnosi puramente clinica?

Allo stato attuale non vi sono altre valutazioni, in particolare di tipo laboratoristico e/o strumentale, che possano essere considerate inequivocabilmente diagnostiche in tutti i pazienti, anche se la ricerca è molto attiva nel ricercare la cosiddetta “pistola fumante”, di tipo strettamente biologico (mediatori chimici o cellulari, profili genetici, micro bioma intestinale, epigenetica). Del resto, come sottolineato giustamente da alcuni esperti, poche patologie possono essere descritte da un solo marcatore biologico o strumentale, anche se va sottolineato che gli sforzi per ricercarlo hanno una valenza fondamentale per chiarire i meccanismi fisiopatologici di una patologia che rimane estremamente complessa.

Quali sono le frontiere della ricerca in ambito diagnostico per la fibromialgia? Cosa bolle in pentola?

Oltre agli aspetti prettamente biochimici, su cui stanno lavorando numerosi gruppi a livello internazionale, sembrano promettenti alcune ricerche che stanno esplorando gli aspetti neurobiologici e cognitivi di questa sindrome. Il Centro di Verona si sta impegnando da alcuni anni in questo campo con importanti collaborazioni di ricerca multidisciplinari. Una collaborazione con la Prof.ssa Valentina Moro del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Verona ha studiato i pattern corporei di questi pazienti utilizzando la realtà virtuale. Rispetto ai controlli sani, i pazienti con fibromialgia presentano schemi di immagini motorie correlate agli aspetti funzionali (stanchezza, esaurimento negli sforzi fisici), ma anche la creazione di illusioni corporee (immagini del sé distorto o abnorme) che sembrano esclusive di questa patologia e che potrebbero rappresentare un marker diagnostico, una “firma cognitiva” esclusiva di questa patologia.
Tali risultati sono stati pubblicati nel numero di gennaio 2022 della rivista Frontiers in Human Neurosciences. Un altro aspetto che ci ha molto stimolato è quello che riguarda il particolare schema linguistico che utilizzano questi pazienti, che sembra non avere corrispondenza con il linguaggio di pazienti affetti da altre forme di dolore. Sulla base di queste osservazioni cliniche, il nostro centro ha avviato una collaborazione con il Watson Research Centre dell’IBM di New York City, in particolare con la sezione del centro che si occupa di linguistica computazionale e che è diretta dal Prof. Guillermo Cecchi. I risultati di tale sperimentazione, allo stato molto preliminari, sono tuttavia estremamente interessanti. L’analisi computazionale del linguaggio di 41 pazienti con fibromialgia, confrontato con altrettanti pazienti con dolore neuropatico afferenti al nostro centro, ha evidenziato significative differenze nell’utilizzo di terminologie e costruzioni sintattiche/semantiche, che potrebbe rappresentare in questo caso una “firma linguistica” della patologia, rilevabile dall’analisi del parlato. Attualmente, è in corso di validazione l’algoritmo che seleziona nei trascritti le parole chiave e le costruzioni linguistiche, che sarà la base di tutte le successive considerazioni anche di carattere diagnostico.

Grazie prof. Schweiger  per averci spiegato questi aspetti ancora poco noti della ricerca, ci auguriamo possa ancora aggiornarci.