Anestetici locali per il controllo del dolore post-operatorio: vecchi farmaci nuovi device

Introduzione

“Fra tutte le moderne invenzioni (la televisione, l’automobile, il telefono, internet e via dicendo) la migliore è l’anestesia.” Così asserisce Luciano De Crescenzo nei suoi “Pensieri di Bellavista”(1). Sicuramente non gli si può dar torto, se pensiamo a come i progressi nel campo anestesiologico hanno consentito alla chirurgia stessa, nelle sue varie branche e declinazioni, di evolversi e di affinarsi. Tali progressi non sono solo intrinseci alle tecniche anestesiologiche, al monitoraggio intraoperatorio del paziente e all’innovazione farmacologica, ma sono anche riferibili alle tecniche di controllo del dolore post-operatorio. Elemento cruciale, quest’ultimo, a torto non sempre sufficientemente evidenziato e sottolineato nella sua importanza per il recupero globale del paziente. Al giorno d’oggi abbiamo un ampio strumentario antalgico: sono infatti disponibili molte  metodiche vantaggiosamente impiegabili per il controllo del dolore post-operatorio. Differenti device e formulazioni farmacologiche che prevedono una molteplicità di aspetti innovativi: quali diverse vie di somministrazione, l’indicazione a realizzare dosaggi sempre più individualizzati, in funzione, anche, delle possibili associazioni farmacologiche. Ciò permette una pianificazione antalgica realmente multimodale con ampia percentuale di successo clinico. L’uso degli anestetici locali nel trattamento del dolore post-operatorio,risulta essere una pratica efficace che trova numerosi consensi e campi di applicazione.

Dolore nocicettivo e infiammazione

Il danno tessutale e l’iperalgesia sono tra i principali meccanismi responsabili del dolore acuto, come nel caso del dolore post-operatorio. Questo dipende dall’attivazione dei nocicettori, ma anche dalla risposta infiammatoria che consegue al danno tessutale.

L’infiammazione comporta la produzione di mediatori peculiari che richiamano nella sede del danno diverse famiglie leucocitarie, sia quelle residenti nella zona interessata sia quelle che giungono dal torrente circolatorio. Gran parte di tali mediatori sono responsabili non solo della chemiotassi leucocitaria, ma anche della nocicezione e quindi della trasmissione nervosa del dolore dalla periferia al sistema nervoso centrale (SNC). Tra questi si annoverano la bradichina e la callidina, che sono rilasciate dal tessuto in risposta al danno e che sono all’inizio della cascata proinfiammatoria. Si aggiungono inoltre una serie di citochine, che nell’infiammazione acuta hanno il ruolo di amplificare il messaggio di danno tessutale attivando specifici meccanismi molecolari in grado di determinare, in situ, fenomeni di plasticità neuronale in risposta all’evento acuto (2). Tra queste il TNF alpha che attiva a cascata alcune interleuchine, tra cui IL-6, IL-8 e IL-1 beta, il Nerve Growth Factor (NGF). Infine, un punto essenziale rimane la produzione di prostaglandine, derivate da acidi grassi e prodotte dall’enzima ciclossigenasi 1 (COX-1) e 2 (COX 2 che viene selettivamente espressa nei pazienti con dolore cronico). Esse sono responsabili non solo dell’infiammazione tout court, ma anche della nocicezione, ovvero della trasmissione dello stimolo doloroso a livello centrale. In questo ambito si inseriscono peptidi di derivazione neuronale, come il già citato NGF, ma anche la sostanza P e la CGRP (Calcitonin gene-related peptide), (quest’ultimi ritenuti responsabili della trasmissione neuronale del dolore) (3). L’ultimo atto di questo meccanismo biologico è l’espressione delle chemochine, la cui presenza sembrerebbe  responsabile della cronicizzazione del dolore (4).

Gli strumenti farmacologici

Per limitare l’impatto detrimentale del dolore sulle strutture organiche abbiamo a disposizione molti strumenti farmacologici. Ovviamente i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), che bloccano la produzione di prostaglandine che, come accennato prima, sono coinvolte nella mediazione del dolore. Tra questi ricordiamo i preparati di ampio uso e consumo sia a livello domiciliare che ospedaliero (acido acetilsalicilico, ketorolac, ibuprofene). Farmaci che nonostante la loro ampia disponibilità,non sono scevri da effetti collaterali e sono da maneggiare con estrema prudenza. Discorso a parte merita il paracetamolo che ha una limitata azione antinfiammatoria ma una potente attività antidolorifica e antipiretica.

Nel dolore acuto trovano il loro massimo impiego i farmaci oppioidi (morfina, buprenorfina) che hanno un’azione centrale (agiscono a livello del nucleo del rafe mediano e del grigio periacqueduttale) e spinale (a livello della lamina 1 e 2 delle corna posteriori), ma anche un livello periferico di interazione recettoriale nelle radici dei gangli del midollo spinale. In condizioni di infiammazione, il numero di terminali nervosi e dei recettori specifici per gli oppioidi aumenta (5): da cui deriva un’ulteriore enorme potenzialità antalgica di questa classe farmacologica. Tuttavia, tali agenti presentano temibili effetti collaterali quali la nausea e il vomito, la stipsi, la sedazione, la depressione respiratoria. Effetti evitabili con un’adeguata formazione ed istruzione del personale sanitario al loro uso razionale e responsabile, soprattutto nel contesto di un approccio multimodale del dolore.

Le differenti specialità farmacologiche integrate e associate, a dosaggio ridotto, possono essere impiegate per bloccare a più livelli e più efficacemente il dolore acuto (6). In quest’ottica, si guarda con interesse, da decenni, all’uso degli anestetici locali (AL) come elemento sinergico di analgesia. In modo particolare, alla loro somministrazione continua per mezzo della Continuous Wound Infusion (WCI). A livello tessutale gli anestetici locali interagiscono con i canali ionici delle membrane cellulari dei terminali nervosi, aumentando il loro potenziale soglia di scarica e rallentando la conduzione dello stimolo nocicettivo. I differenti effetti degli AL sulla conduzione nervosa (fibre sensitive e/o fibre motorie) consentono di realizzare un blocco differenziale in cui la sensazione del dolore è eliminata senza una corrispettiva riduzione della componente motoria della zona interessata.

L’integrazione, dunque, di più strategie terapeutiche e di più modalità di somministrazione consente di realizzare “l’opioid sparing”. Ciò si traduce in un vero e proprio risparmio del farmaco oppioide, utilizzato come prima linea, con una riduzione degli effetti collaterali e con la possibilità di somministrare eventualmente una ulteriore rescue dose dell’oppioide, secondo necessità. Il meccanismo molecolare che sottende l’efficacia della WCI è stato studiato da Carvalho et al. valutando le relazioni intercorrenti tra i livelli locali di citochine (IL-10) e dei mediatori dell’infiammazione presenti nella ferita chirurgica (sostanza P) (7). A tutt’oggi, però, ancora non è stato chiarito, definitivamente, il meccanismo di tale assetto molecolare bio-reattivo-immunitario, né a livello distrettuale né sistemico.

Nonostante i dati incoraggianti, il consenso sull’efficacia della WCI nelle laparotomie è ancora ampiamente dibattuto. Alcuni autori hanno recentemente dimostrato come la WCI per questo tipo di ferita chirurgica risulti inefficace (8). Un più ampio consenso sulle indicazioni al trattamento, sulle modalità di inserimento del catetere e sul tipo di infusione da garantire, è necessario per la completa validazione della WCI. Sono necessari, inoltre, specifici risultati ottenuti su una più ampia tipologia d’interventi chirurgici, con una maggiore attenzione alla selezione dei pazienti. Dai risultati presenti in letteratura, si confermerebbe la sicurezza della WCI, poiché non si è osservata alcuna infezione del sito chirurgico e/o problematica relativa, quale deiscenza della sutura, ematoma, suppurazione o laparocele, come anche precedentemente indicato dal lavoro di Lluis et al. (9).

La scelta dell’anestetico locale

Da un punto di vista farmacologico gli anestetici locali si dividono in amino-esteri (procaina, clorprocaina, tetracaina) e in amino-amidi (lidocaina, mepivacaina, prilocaina, bupivacaina, etidocaina, ropivacaina e levobupivacaina). Quelli maggiormente impiegati per questa tecnica appartengono a questa seconda categoria.

Da un punto di vista farmacodinamico possono essere classificati in almeno tre categorie in base alla solubilità lipidica, al legame con le proteine di membrana e al pKa. Essenzialmente si distinguono quelli a breve durata d’azione (procaina, clorprocaina), a media durata di azione (lidocaina, mepivacaina) e a lunga durata d’azione (bupivacaina, ropivacaina, levobupivacaina).

Per la WCI, gli anestetici di prima scelta, sono stati ropivacaina, bupivacaina e levobupivacaina, con una maggiore preferenza per la ropivacaina e levobupivacaina in virtù della loro minore tossicità sistemica (8). La ropivacaina è un aminoestere ed ha una minore tossicità sul sistema nervoso centrale e cardiovascolare. Ha un alto pKa e una bassa solubilità lipidica che consente il blocco delle fibre A, delta e C, responsabili del dolore, ma ha meno effetti sulle fibre A beta. Dati clinici hanno mostrato che l’infusione epidurale di ropivacaina 0,2% è sufficiente per garantire l’analgesia e consente di ridurre il dolore dopo chirurgia addominale ed ortopedica, soprattutto se associata ad oppioidi. La levobupivacaina, enantiomero levogiro della bupivacaina che determina anestesia bloccando i canali del sodio con meno potenza rispetto alla bupivacaina (10), ha in questo senso un miglior profilo cardiovascolare e non influisce sul QRS o sul QT (11). Attualmente esistono poche limitate esperienze di questo uso di infiltrazione continua di levobupivacaina. Interessante uno studio che mette a confronto levopubivacaina e ropivacaina nell’analgesia post ricostruzione del legamento crociato anteriore, in cui si evidenzia il migliore outcome dei pazienti trattati con l’anestetico in continuo, rispetto a quelli trattati con la sola fisiologica (12). Le diluizioni che sono maggiormente impiegate sono levobupivacaina 0.125% o ropivacaina 0.2%. Il tempo medio di infiltrazione è di 48-72 ore con velocità infusionali di 5-6 ml/ h.

Il blocco perineurale continuo

Il blocco perineurale continuo (cPNB) è una tecnica concettualmente semplice che consiste nell’inserimento percutaneo di un catetere nelle vicinanze di un nervo periferico. Si ha notizia di questa tecnica a partire dal 1946 e fu usata non solo per l’analgesia in acuto e in cronico, ma anche per trattare il singhiozzo refrattario e il vasospasmo da malattia di Raynauld.

I primi cateteri venivano inseriti sotto guida fluoroscopica, oggi si preferisce inserirli sotto guida ecografica con minore invasività per il paziente e miglior maneggevolezza per l’operatore sanitario. A questo può associarsi la stimolazione del nervo tramite ENS per confermare ulteriormente la localizzazione in situ del dispositivo. Anche in questo caso si sono utilizzati anestetici locali (bupivacaina 0,125%, ropivacaina 0,2% e levobupivacaina 0,125) con differenti modalità infusionali (infusione continua e/o boli on demand). Le localizzazioni più citate in letteratura sono state l’interscalenica e l’ascellare (chirurgia della spalla e del braccio), la femorale la fascia iliaca, la sciatica (chirurgia di anca e ginocchio ) e la poplitea (chirurgia di gamba e caviglia). Un uso particolare del CPNB è quello del dolore post traumatico. Ovviamente per questo tipo di paziente sono necessari più cateteri che in passato sono stati sfruttati con successo in medicina militare. Previo inserimento  è fondamentale la valutazione neurologica delle zone interessate, per escludere eventuali contenziosi medico-legali.

Continuous wound infusion

L’infiltrazione continua della ferita chirurgica, Continuous Wound Infusion (WCI) si pone sulla scia concettuale dell’infiltrazione della ferita, Local Anesthetic Infiltration (LAI), ovvero l’infiltrazione della ferita che si effettua prima di suturare la ferita chirurgica, ma se ne differenzia per la durata nel tempo. Nell’ultimo decennio sono stati messi in commercio dei cateteri multiforati, di varie lunghezze collegati ad una pompa elastomerica, in grado di fornire irrorazione continua della ferita chirurgica. Sono questi modelli di cateteri infusionali che permettono di realizzare la WCI.

Questi device vengono inseriti nel contesto della ferita chirurgica in posizione sottofasciale, come descritto nella maggior parte dei lavori disponibili in letteratura. Essi sono localizzati nel contesto dei piani muscolari, nel caso di chirurgia addominale-ginecologica-urologica, oppure possono essere inseriti nell’ambito articolare nel caso di interventi ortopedici, in sede extracapsulare, oppure in sede perineurale nel caso della chirurgia cardiotoracica. Localizzazioni meno “gettonate” sono la soprafasciale, intracapsulare o addirittura in sede intrapleurica, anche se i lavori che sono stati prodotti hanno una numerosità campionaria limitata.

Oltre che di differenti lunghezze esistono cateterini di differente calibro, con finestre di differente ampiezza: questi parametri sono alla base di numerosi modelli commercializzati che prevedono complesse modalità di distribuzione locale di anestetico.

Un recente lavoro di Campolo et al. (13) ha preso in considerazione quattro device di altrettante case produttrici ed ha mostrato come quei cateteri con fenestrature più piccole garantiscano una distribuzione più omogenea del flusso rispetto a quelli con fenestrature di maggior calibro e questo a prescindere dalla modalità infusionale scelta. Infatti, altra caratteristica che ha questa tecnica, è la possibilità di scelta del tipo di infusione, se applicare la somministrazione continua o intermittente. Ciò naturalmente consente un’ampia maneggevolezza e riduce i rischi di tossicità locale. Come evidenziato più avanti, tuttavia, il livello di tossicità rimane sostanzialmente trascurabile.

Campi di applicazione

Il blocco dei nervi parietali afferenti nocicettivi, attraverso l’utilizzo dell’infiltrazione continua della ferita chirurgica con anestetici locali, può essere utile nella gestione multimodale del dolore post-operatorio in varie specialità chirurgiche (14). Uno studio danese ha dimostrato che pazienti sottoposti ad intervento chirurgico di ernia inguinale, che ricevevano un’infiltrazione sottofasciale di anestetico locale, ottenevano una significativa riduzione del dolore a riposo e dopo mobilizzazione.

L’effetto dell’infiltrazione continua della ferita chirurgica con anestetici locali dipende in parte dal livello in cui viene fatta l’iniezione di anestetico. L’infiltrazione più profonda risulta più efficace dell’irrorazione di AL superficiale o sottocutanea.

Nell’ambito della chirurgia addominale è stata validata l’efficacia della WCI anche negli interventi di appendicectomia: un’intensità di dolore più bassa (scala analogica visiva) a riposo e con la tosse è stata registrata nei pazienti che hanno ricevuto l’instillazione di ropivacaina 0,2% a partire dalle tre ore e continuando per 36 ore dopo l’intervento chirurgico (15). L’impiego dei cateterini per via sottofasciale è stato sfruttato anche in campo urologico, per interventi di prostatectomia radicale e nefrectomia laparotomica.

In un gruppo di studio italiano, è stata dimostrata la validità dell’infusione continua di ropivacaina nella nefrectomia laparotomica in termini di riduzione del dolore post-operatorio (14). Si è evidenziato un consumo inferiore di morfina totale e una riduzione delle giornate di degenza ospedaliera. Anche nel trapianto di rene da donatore vivente, Biglarnia ha riscontrato che l’infusione continua di ropivacaina 0,5%, ha potenzialmente l’effetto di ovviare all’utilizzo di morfina o equivalenti nel post-operatorio, diminuendo l’incidenza di nausea e di vomito – correlati agli oppiacei. Tali vantaggi permettono di  massimizzare la sicurezza dei donatori sottoposti a nefrectomia (16). La WCI ha mostrato i suoi effetti positivi anche nella dissezione radicale dei linfonodi inguinali/ iliaci in pazienti con melanoma (17).

Essa si è rivelata un metodo pratico, utile e sicuro anche in campo ginecologico. L’instillazione di bupivacaina mediante un dispositivo elettronico controllato dalla paziente fornisce un’analgesia efficace dopo interventi di isterectomia totale addominale con salpingo-ovariectomia bilaterale (18). Nel taglio cesareo, invece, si è dimostrata praticabile l’infusione, mediante pompe elastomeriche gestite dalla paziente, di ropivacaina 0,2%. Poiché le pazienti sottoposte a taglio cesareo necessitano di una mobilizzazione precoce, la WCI rappresenta la tecnica ideale per ridurre le richieste di oppioidi ed i relativi effetti collaterali (19).

Il campo di applicazione dove la WCI ha trovato la sua migliore espressione è l’ortopedia. Un’opzione che ha guadagnato popolarità in ambito ortopedico è infatti rappresentata dall’infiltrazione di anestetici locali attraverso il collocamento intra-articolare di un catetere che consenta l’infusione continua di anestetico locale all’interno dell’articolazione. In un recente studio (20), sono stati analizzati i possibili benefici della WCI con ropivacaina in pazienti sottoposti ad artroplastica totale di ginocchio. Da tale esperienza è emerso che i pazienti con infusione continua di ropivacaina hanno visto una riduzione significativa del v-NRS durante i primi 3 giorni postoperatori e, contestualmente, una riduzione delle richieste di farmaci antidolorifici al bisogno. Nei pazienti, invece, che non hanno ricevuto la WCI si è avuta una maggiore richiesta di farmaci oppioidi necessari per controllare il dolore ed un’alta percentuale di effetti collaterali (ad esempio, nausea, vomito, vertigini), ritardando il recupero funzionale dell’articolazione. Inoltre, la durata media di permanenza in ospedale era più breve nei pazienti che avevano ricevuto la WCI con ropivacaina. Non si sono verificate complicazioni associate con l’uso del dispositivo, senza infezione o ritardo nella guarigione delle ferite chirurgiche.

Uno dei problemi che si può verificare con questo sistema potrebbe essere un aumentato rischio di infezione. È possibile, però, che con il controllo del dolore, vi sia un’inibizione dei mediatori infiammatori, una riduzione dell’edema, e, quindi, migliore ossigenazione dei tessuti. Inoltre, è noto che gli anestetici locali hanno un effetto battericida e/o batteriostatico, nonché un effetto fungistatico. Pertanto, sembra che la WCI potrebbe anche ridurre il rischio di infezione (20).

La gestione infermieristica

La gestione ottimale del dolore post-operatorio, con la conseguente riduzione dello stato di sofferenza che affligge il più delle volte il paziente sottoposto ad intervento chirurgico, passa attraverso un approccio multidisciplinare. L’infermiere, in questa pianificazione terapeutica complessa, riveste un ruolo di prim’ordine rispetto agli altri operatori sanitari, in quanto ha la possibilità di avere un contatto diretto con il malato e quindi di valutare l’efficacia della terapia antalgica somministrata.

Il paziente chirurgico trattato con la WCI deve essere monitorato ogni ora per le prime 4 ore e poi ogni 3 ore, rilevando i parametri vitali (PA; FC; FR; T°C; v-NRS; SpO2) utili al fine di valutare sia l’andamento del dolore che l’insorgenza di eventuali complicanze. Oltre alla pressione arteriosa e alla frequenza cardiaca, che possono essere influenzate anche dalla terapia analgesica, vanno rilevati la frequenza respiratoria, la temperatura corporea, la diuresi, l’entità delle perdite e tutti quei parametri in grado di determinare le complicanze prettamente legate alla terapia antalgica (21).

In tutte le fasi che caratterizzano il processo assistenziale occorre valutare il dolore, inteso come segno vitale. Il primo passo consiste nel raccogliere informazioni dal paziente circa il dolore quali: localizzazione, intensità, persistenza, qualità, fattori aggravanti, fattori che portano sollievo (22).

È necessario controllare il sito di inserimento del catetere con l’ispezione e la palpazione della zona almeno una volta al giorno, preferibilmente a intervalli regolari, per riconoscere subito eventuali reazioni o complicanze. La medicazione che copre il dispositivo andrà sostituita solo se bagnata, staccata o visibilmente sporca. Se il paziente riferisce dolore a livello del sito di ingresso del catetere, ha febbre o sono presenti altre manifestazioni locali che possano far sospettare la presenza di infiammazione e/o di infezione, è necessario rimuovere la medicazione per effettuare un esame approfondito dell’area di inserzione. In taluni casi la zona potrebbe presentarsi arrossata, calda, edematosa. Se si rileva un’infezione occorrerà rimuovere il catetere ed inviare la punta in laboratorio per un esame colturale. In caso di un rallentamento nella velocità di infusione dell’AL occorre verificare che non vi siano inginocchiamenti od occlusioni della linea infusionale. I risultati degli accertamenti effettuati vanno registrati in cartella clinica (23).

Ogni reparto dovrebbe avere un referente infermieristico per l’analgesia post-operatoria e disporre di protocolli per il monitoraggio, la prevenzione e il trattamento del dolore acuto (24).

Estremamente importante è la verifica dell’attività infermieristica prestata (numero pazienti trattati, tipologie di trattamento, farmaci utilizzati e dosaggi relativi); del livello di efficienza (“pain relief” raggiunto); del livello di sicurezza (frequenza di effetti collaterali e capacità di intervento del team); del grado di soddisfazione del paziente nei confronti delle terapie analgesiche. Inoltre, per garantire la certezza dei risultati, il personale infermieristico dovrebbe essere adeguatamente formato sul tema della gestione del dolore post- operatorio (25-26), solo così si porrà fine a quell’insensato atteggiamento di considerare il dolore come parte integrante, ineluttabile, di un intervento chirurgico più o meno complesso.

Conclusioni

L’efficacia degli anestetici locali, determinata dall’inibizione della trasmissione degli impulsi nocicettivi proveniente dal sito di lesione chirurgica, è ampiamente comprovata sia nella pratica clinica che dai dati presenti in letteratura. Oltre a fornire una buona analgesia post-operatoria, la WCI, sfruttando la potenza analgesica, di tali agenti farmacologici, si dimostra una tecnica semplice, sicura e poco costosa. Nonostante tali risultati positivi, solo pochi studi hanno confrontato questa tecnica con gli “standards of care “ più attuali, che includono tecniche di analgesia multimodale, blocchi nervosi ed altri farmaci analgesici adiuvanti. Per tali motivi, è auspicabile che in breve tempo maturino ulteriori evidenze scientifiche che possano validare velocemente un uso routinario della WCI (8).

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