L’educazione terapeutica: educare per curare meglio

“La malattia è sintomo,  prova e insegnamento”

                                 Michel Demaison

Educare per curare meglio

Nel corso degli ultimi anni si è passati dalla situazione in cui il malato riceve e accetta senza discutere il trattamento che gli è prescritto allo stadio del consenso informato e dell’educazione terapeutica, come strumenti di  alleanza terapeutica in cui il paziente apprende la giusta consapevolezza per poter, da una parte accettare e condividere il percorso diagnostico-terapeutico proposto dai curanti, dall’altra acquisire le capacità per gestire la propria  malattia (1). L’accresciuta incidenza delle malattie cronico-degenerative, e di conseguenza del numero di persone parzialmente o completamente non autosufficienti, richiede a queste persone di essere sempre più coinvolte, con consapevolezza e responsabilità, nel loro progetto di cura, e quindi capaci di prendere decisioni importanti per la loro salute (2).

L’Educazione Terapeutica (ET) rappresenta per le professioni sanitarie uno strumento concreto e reale per rispondere alle esigenze dei cittadini, la cui patologia può portare alla progressiva perdita di autonomia. Rendere la persona affetta da una malattia cronica il più possibile autonoma nella gestione della propria condizione è una sfida e una opportunità, sia per i singoli professionisti sanitari, sia per i sistemi sanitari nel loro complesso. Tale sfida, etica ed economica, è di straordinaria importanza per il consistente miglioramento che l’educazione terapeutica può apportare alla qualità della vita dei pazienti e delle loro famiglie e per la sua  positiva influenza sugli aspetti economici spesso aggravati da una scorretta gestione delle complicanze che possono insorgere proprio a causa della mancata conoscenza (3).

Nel rapporto tecnico OMS Regione Europa (1998) viene data la seguente definizione di ET:  “l’educazione terapeutica del paziente dovrebbe permettere al paziente di acquisire e mantenere le capacità e le competenze che lo aiutano a vivere in maniera ottimale con la sua malattia. Si tratta, di conseguenza, di un processo permanente, integrato alle cure e centrato sul paziente. L’educazione implica attività organizzate di sensibilizzazione, informazione, apprendimento dell’autogestione e sostegno psicologico concernenti la malattia, il trattamento prescritto, le terapie, il contesto ospedaliero e di cura, le informazioni relative all’organizzazione e i comportamenti di salute e di malattia. È finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famiglie a comprendere la malattia e il trattamento, cooperare con i curanti, vivere in maniera più sana e mantenere o migliorare la loro qualità di vita”.(4).

Partendo da questa definizione, si identificano diversi fattori che sono all’origine dell’ET (1):

a)    i progressi della medicina permettono di vivere più a lungo con una malattia, a condizione che i pazienti realizzino da soli alcune cure;

b)    la crescita del numero di pazienti affetti da malattie che rendono impossibile una presa in carico individuale è in continuo aumento: delegare le competenze diventa pertanto una necessità;

c)    il principio secondo il quale tutti sono capaci di autonomia e di autodeterminazione: il soggetto in qualità di malato ha capacità decisionali;

d)    il concetto stesso di salute, considerato come un bene di natura complessa che conduce sempre di più le persone a considerarsi “produttori di salute” che operano scelte terapeutiche che ritengono spettino a loro.

L’ET si rivolge, quindi, a persone affette da una patologia e che sono portate a gestire la loro malattia, e il relativo trattamento, in collaborazione con i curanti, per periodi più o meno lunghi e spesso anche per tutta la vita. Il perdurare dello stato di malattia obbliga il paziente a scelte e comportamenti che investono la sua vita quotidiana ( lavoro, studio, alimentazione, attività fisica, terapie farmacologiche  e riabilitative, ecc.), oltre che la sfera dei sentimenti e delle emozioni provate. Diventano quindi necessari, affinché la persona possa affrontare al meglio la situazione di malattia, specifici interventi educativi che rendano il paziente competente (5). La competenza riguarda la comprensione che la persona ha di sé stessa, della malattia e del suo trattamento, delle sue capacità di auto-cura, di adattamento, di sorveglianza e di integrazione della terapia al proprio stile di vita. L’ET si prefigge, per questo motivo, il grande obiettivo di aiutare il paziente a sviluppare le proprie competenze di cura al fine di promuovere la propria autonomia nella ricerca di conciliare al meglio i propri progetti di vita e le esigenze del trattamento, negoziando continuamente tra le sue conoscenze, il suo sistema di valori, le sue abitudini di vita e le norme terapeutiche. Il concetto di autonomia non può essere disgiunto da quello di responsabilità, che deriva proprio dai temi dell’educazione sanitaria, in quanto si tratta di far prendere consapevolezza ai cittadini che sono in parte responsabili del loro stato di salute e che, osservando sani stili di vita, potrebbero evitare di essere affetti da parecchie cause di mortalità e morbilità (6).

Il  paziente con malattia cronica

Nell’ET del paziente affetto da malattia cronica bisogna però sottolineare, per quanto riguarda il concetto di autonomia, che il paziente non potrà mai essere completamente autonomo, perché deve ricorrere ai curanti, anche in assenza di riacutizzazioni della malattia, almeno per i regolari controlli; così, per il concetto di responsabilità, bisogna precisare che il renderlo responsabile non è della malattia in sé, ma della rapidità della comparsa delle sue complicazioni.

Generalmente si tende a proporre al malato cronico una vita come ”quella di tutti”, una vita ”quasi normale”, ben sapendo che per vari aspetti il paziente non è affatto come tutti e che la sua vita non sarà mai normale (7). È necessario, quindi, che i curanti prendano coscienza dei limiti e delle eventuali contraddizioni del discorso sanitario attuale: il paziente con malattia cronica non è totalmente autonomo e non è completamente responsabile di tutto quello che gli succede, non vive in maniera del tutto normale e le cure che dobbiamo assicurargli rappresentano un carico importante per sé stesso e per il suo ambiente familiare.

Questo nuovo orientamento culturale, che comporta al paziente di dover uscire dal suo stato tradizionale di dipendenza e passività verso i curanti, e alla società di riconoscere a ogni persona il diritto ad intervenire direttamente nelle scelte che lo coinvolgono, trova, nell’adesione a un percorso di ET, lo strumento che può restituire alla persona  un’aspettativa e una qualità di vita sovrapponibili a quella della popolazione non malata.

Uno spazio in cui il paziente decide ciò che desidera essere

La dichiarazione OMS di Alma Ata nel 1976, ”La salute per tutti nell’anno 2000”, sottolinea il concetto che,  parallelamente alle cure sanitarie, occorrono diversi livelli di prevenzione (primaria, secondaria e terziaria): l’ET  si colloca a livello tra la prevenzione secondaria e terziaria in cui alcuni fattori di rischio sono già presenti o in cui la malattia si è già manifestata e non può essere guarita, ma nella quale le complicanze prevedibili possono essere ritardate e l’eventualità del decesso può essere allontanato grazie alla partecipazione del paziente al suo trattamento e all’autosorveglianza.

Educare – dal latino ex ducere – letteralmente trarre fuori – ha insito il significato di far emergere le risorse, ossia le potenzialità della persona la cui partecipazione risulta centrale e determinante nel processo educativo (8). L’ET non si limita, pertanto, a un semplice passaggio di conoscenze (informazione) tra chi detiene il sapere (gli operatori sanitari) e chi non conosce (la persona o il gruppo di persone).

L’informazione, generalmente, è un processo passivo, diversamente dall’educazione che è un processo interattivo, focalizzato su colui che apprende. Certamente esiste una parte di informazione nel processo dell’ET, tuttavia, informare non basta a rendere il paziente competente. Diversamente dagli interventi di educazione alla salute, che cercano di trasmettere il messaggio di informazione  più semplice possibile, l’educazione terapeutica affronta contenuti e argomenti complessi che necessitano di un apprendimento spesso lungo e continuo e in questo senso è una formazione (9).

L’educazione terapeutica è infatti  una pratica complessa che implica una diagnosi educativa, una scelta di obiettivi di apprendimento, l’applicazione di tecniche di insegnamento, una valutazione pertinente.

La sfida è quella di affiancare con gradualità la persona affetta da patologia cronica con l’obiettivo di sostenerla, informarla, incoraggiarla, addestrarla perché, attraverso un’azione educativa globale, possa con la sua famiglia farsi carico dei  suoi problemi di salute divenendo un decisore competente. È un percorso non facile, che ripercorre tutte le tappe della relazione d’aiuto e che, partendo dall’informazione, attraverso la comunicazione e il supporto di metodologie efficaci, conduce alla realizzazione del coping – capacità di far fronte – rispetto a situazioni che comportano difficoltà, rischio, revisione del proprio modo di vivere (2).

“Empowerment” del paziente e degli operatori

Oggi gli operatori sanitari sono chiamati a modificare atteggiamenti e competenze posseduti, individuando le procedure di apprendimento più idonee per “quella persona”, rafforzandone le capacità individuali per vivere e far fronte alla malattia (3).

Attraverso l’ET avviene quindi la ricerca dello sviluppo dell’empowerment  del paziente, ma allo stesso tempo anche dell’empowerment  degli operatori, con l’acquisizione di nuove competenze professionali e capacità per programmare e svolgere un progetto educativo nei confronti del paziente (6).

In questa relazione di cura non è in gioco solo uno scambio di competenze, ma l’incontro di due soggettività che entrano in una dinamica interpersonale. Per essere efficace la relazione terapeutica presuppone, sempre, non soltanto il prendersi cura della persona-paziente, ma presuppone, anche, l’insegnare a questa persona a prendersi cura di sé (10,11).

I  professionisti sanitari, per educare, devono essere in grado di (12):

  • adattare il proprio comportamento professionale ai pazienti, alle malattie, alle famiglie, alle risorse disponibili;
  • comunicare in modo empatico con il paziente, tenendo in considerazione i suoi stati emotivi, le sue esperienze, le sue rappresentazioni mentali della malattia e del suo trattamento;
  • insegnare ai pazienti a gestire il loro trattamento e a utilizzare le risorse sanitarie, sociali ed economiche disponibili;
  • adattare costantemente i propri ruoli e le azioni a quelle del team assistenziale e saper interagire con gli altri operatori sanitari;
  • aiutare i pazienti ad imparare e a gestire il loro modo di vivere;
  • valutare le conoscenze, le capacità e le risorse possedute dalla persona, dalla famiglia e dalla rete in cui è inserito per la continuazione del programma terapeutico a domicilio;
  • informare e addestrare il paziente e i suoi familiari all’autocontrollo di segni e sintomi, di complicanze ed effetti terapeutici delle terapie seguite;
  • educare i pazienti e familiari alla gestione delle crisi e dei fattori che interferiscono con la gestione normale della loro malattia;
  • scegliere gli strumenti idonei per educare i pazienti e integrarli nell’assistenza al paziente e nel processo di apprendimento;
  • valutare l’ET in termini di effetti terapeutici (clinici, biologici, psicologici, educativi, sociali, economici) per apportare modifiche appropriate, se necessarie .

Se i benefici dell’ET sono molteplici per il paziente e la sua famiglia, i vantaggi possono essere altrettanto significativi e importanti per il personale curante impegnato in questa attività (3).

Essi possono essere:

  • il miglioramento e arricchimento della propria identità umana e professionale;
  • un migliore clima nei rapporti interpersonali sul luogo di lavoro;
  • una riduzione dello stress emotivo e della possibilità del burn-out;
  • una maggiore gratificazione professionale derivante dall’opportunità di approfondire il rapporto interpersonale con i propri pazienti;
  • la riduzione di equivoci, tensioni e conflittualità (anche in campo forense) con il personale curante dovuti al coinvolgimento attivo e alla responsabilizzazione di malati e familiari nei programmi di cura e sorveglianza della malattia

L’ET può essere considerata, pertanto, una risorsa sia per il paziente, sia per i curanti.

Il contributo degli infermieri

Il contributo degli infermieri all’ET deve essere interpretato in relazione ai loro rapporti con i medici e in relazione allo sviluppo del loro ruolo specifico. Se ci si riferisce ai testi e alle affermazioni espresse nel tempo, sono senz’altro gli infermieri che per primi hanno riconosciuto la necessità di tenere in considerazione nella presa in carico del paziente  una dimensione preventiva ed educativa (2). Nel 1918 la  National League of Nursing  affermava, precorrendo i tempi, che ”la formazione abituale (degli infermieri, nda)… si limita allo studio della malattia, non considerando i fattori preventivi ed educativi, elementi essenziali della sanità pubblica e del ruolo sociale dell’ospedale”. Nel 1937 la stessa organizzazione precisava: “ l’infermiere è essenzialmente un insegnante e un agente di salute, qualunque sia il campo in cui esercita la sua attività”.

Negli anni gli infermieri di tutto il mondo hanno investito moltissimo nell’ambito dell’educazione al paziente,  ponendola come elemento fondante della professione. In Italia, dal 1994, anno di emanazione del D.M. 739  “Profilo professionale dell’ Infermiere”, gli infermieri sono impegnati a definire le proprie competenze e il proprio ruolo, definendo l’assistenza infermieristica di natura tecnica, relazionale, ed educativa. In un contesto sanitario, istintivamente, l’infermiere è considerato dal paziente l’operatore più disponibile, quello con cui è più facile dialogare,  perché   a un gradino più vicino al proprio livello di paziente. A differenza del medico e degli altri professionisti della salute,  l’infermiere può essere maggiormente coinvolto e fatto partecipe delle aspettative, delle speranze e dei timori  del malato e più facilmente può fungere da educatore per promuovere l’adesione della persona al suo trattamento.

Anche altre professioni della salute come i fisioterapisti, le ostetriche, le dietiste hanno integrato l’educazione nelle loro pratiche, pur non avendo sentito la necessità di farne però un elemento fondante della loro professione, come è successo per gli infermieri.

Attualmente esiste un accordo unanime nell’affermare che l’ET trova la massima realizzazione all’interno di équipe multi- professionali e gli stessi medici, che tendevano in passato a delegare questa pratica agli infermieri, oggi re-investono in questo campo, avendo preso coscienza della pertinenza di essa con le cure mediche.

Occorre sottolineare che l’ET  pone ai medici, agli infermieri e agli altri professionisti,  il problema di imparare a esercitare il mestiere di educatori non a uno studente o un pari, ma a una persona (il malato) i cui valori, rappresentazioni, conoscenze, possono essere molto lontani da quelli del curante.  Impegnandosi in percorsi di ET, i curanti accettano non solamente un nuovo modo di relazionarsi con i pazienti e i loro familiari, ma anche un altro tipo di responsabilità. Questo orientamento richiede, necessariamente, una formalizzazione dell’attività di educazione e l’organizzazione di veri e propri programmi di ET che comportino tecniche pedagogiche, documenti, sequenze che ancor oggi restano relativamente nuove in un servizio assistenziale (12).

Conclusioni

Nell’attuale scenario sanitario, che vede un progressivo aumento delle patologie croniche, l’ET  è sempre più  indispensabile nella presa in carico del paziente con malattia cronica. Per questo i numerosi ostacoli (carenza di risorse umane e finanziarie, lavoro in team insufficiente, tradizioni e cultura delle professioni sanitarie) che impediscono la sua attuazione devono essere rimossi, al fine di sostenere la persona a raggiungere il più possibile quella autonomia e responsabilizzazione nel rapporto e nella gestione del proprio stato di salute, che difficilmente potrebbe realizzare senza l’educazione di professionisti formati all’ET.

In questa logica e nel pieno rispetto  delle competenze riconosciute dai profili di appartenenza, i professionisti hanno bisogno di costruire, esercitare, sperimentare durante i percorsi di formazione, e in ambiente protetto, abilità e metodi che li aiutino a diventare i professionisti della salute di cui i cittadini hanno oggi bisogno (12).  L’implementazione di strategie per promuovere programmi di ET necessita, pertanto, di forti sostegni di tipo istituzionale e organizzativo; senza questi supporti, il percorso verso questo obiettivo sarà  difficoltoso e i  risultati non potranno che essere limitati e incompleti.

Per gli operatori sanitari  che decidono di impegnarsi in un progetto di educazione terapeutica nelle proprie realtà operative,  la scelta  rappresenta non solo uno spazio d’incontro tra curanti, pazienti e familiari, ma anche un “punto di non ritorno” nella propria vita professionale, un’esperienza profonda che modifica il proprio modo di rapportarsi a sé e agli altri.

Bibliografia

1. D’Ivernois JF, Gagnayre R, Educare il paziente. Un approccio pedagogico.  McGraw-Hill, 2009.

2. Ferraresi A, Gaiani R, Manfredini M. Educazione terapeutica. Metodologia e applicazioni.  Roma: Carocci, 2004.

3. Laveder F, L’educazione terapeutica: una risorsa per malati  e curanti. L’arco di Giano, 2003.

4. WHO. Therapeutic Patient Education-Continuing Education Programmes for Health Care Providers in the field of Prevention of Chronic Diseases- Report of a WHO working group,1998.

5. Marcolongo R, Rigoli A. Educazione terapeutica per Pazienti. Icaro n° 28/2000.

6. L’educazione come terapia. L’Arco di Giano, Editoriale  n° 18/1998.

7. Lacroix A, Assal JP, Educazione terapeutica dei pazienti. Nuovi approcci alla malattia cronica. Torino: Minerva Medica, 2005.

8.Dalponte A, Olivetti Manoukian F, eds. Lavorare con la cronicità. Formazione, organizzazione, rete dei servizi. Roma: Carocci Faber, 2004.

9. Zannini L, L’educazione del paziente. In: Auxilia F., Pontello M. Educazione sanitaria. Strategie educative e prevenzione per il paziente e la comunità. Padova: Piccin, 2012.

10. Di Giulio P. L’assistenza come terapia. L’infermiere, 1/2000.

11. RNAO (Registered Nurses Association of Ontario). Establishing therapeutic relationships. July 2002 ( traduzione italiana a cura di Calanchi S., Centro Studi EBN, AOU di Bologna-Policlinico Sant’Orsola Malpighi.  www.evidencebasednursing.it.

12.OMS Ufficio Regionale per l’Europa, Copenaghen, Educazione terapeutica del paziente. Programmi di formazione continua per operatori sanitari nel campo della prevenzione delle patologie croniche. Rapporto di un gruppo di lavoro dell’OMS 1998 (traduzione italiana a cura del CeSPI, Torino 2007).